Nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma si sono incontrati i Comitati del “Sì” e del “No” a poco meno di un mese dal voto. Il dibattito prende piede in un’aula universitaria, di fronte ad un pubblico di (più o meno) informati, desideroso di conoscere le argomentazioni delle due parti.
QUI UNA GUIDA COMPLETA AL REFERENDUM
A parlare in favore del “No” è Alessandro Pace: docente di Diritto Costituzionale in varie università, come Cagliari, Modena, Firenze; docente di Istituzioni di Diritto Pubblico nella stessa facoltà dove si tiene questo dibattito ed oggi professore emerito di Diritto Costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza de “La Sapienza”. È Presidente del “Comitato per il No” alla riforma costituzionale Renzi-Boschi.
Per il “Sì” prende la parola Beniamino Caravita Di Toritto, attuale titolare ordinario della cattedra di Istituzioni di Diritto Pubblico di Scienze Politiche; in precedenza, docente di Diritto Costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza de “La Sapienza” e dell’università “LUISS Guido Carli”, oltre che componente del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti ed autore di diversi articoli sulle ragioni del “Sì”.
LE RAGIONI DEL NO
Il primo a prendere parola è il professor Pace, che sceglie di citare prima di tutto la posizione del costituzionalista Luciano Violante. Quest’ultimo, seppur a favore del “Sì”, ritiene che ci troviamo di fronte ad una riforma costituzionale e non ad una semplice revisione. Di revisioni costituzionali in 70 anni del nostro ordinamento ce ne sono state numerose: ma una riforma così ampia è pari solo a quella relativa al momento della nascita della Costituzione.
Il primo punto debole analizzato è il testo del quesito: in esso sono contenuti ben cinque punti, ma l’elettore può esprimere una sola scelta per tutti. Pace si è dichiarato a favore della soppressione del CNEL (punto numero tre del quesito), ma non per questo ritiene di poter votare a favore di tutto il resto: si tratta di un testo troppo ampio.
Altra critica: è una riforma presentata e voluta dal Governo. Questo Governo e la sua maggioranza parlamentare sono stati eletti con una legge elettorale, la Legge Calderoli, meglio nota come “Porcellum”, che con la sentenza numero 1 del 2014 è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Dopo un giudizio così netto, sostiene Pace, il Parlamento eletto avrebbe dovuto proseguire il proprio incarico per un periodo limitato e favorire il ritorno alle urne, così da garantire ai cittadini una rappresentanza costituzionalmente legittima.
Il punto più discusso riguarda, ovviamente, il nuovo Senato delle Autonomie. Si tratterà di una camera di rappresentanza territoriale, formata da 100 membri: 95 eletti tra i sindaci e tra i consiglieri regionali e i restanti 5 nominati dal Presidente della Repubblica. Secondo Pace, solo negli stati federali come Germania o Stati Uniti la seconda Camera rappresenta le entità territoriali: scelta ragionevole, di fronte alla specifica forma di Stato. Addirittura negli Stati Uniti c’è una rappresentanza paritetica: due senatori per ciascuno Stato. Per non parlare poi del fatto che i senatori statunitensi hanno un establishment molto nutrito: 34 consulenti ciascuno. In Germania, invece, i membri del Bundesrat sono eletti con il vincolo di mandato, che nella nostra Costituzione è vietato ai sensi dell’articolo 67. Invece, i nostri nuovi senatori/sindaci/consiglieri dovrebbero svolgere due lavori contemporaneamente, guadagnando oltretutto l’immunità parlamentare. In Germania l’elezione della seconda Camera avviene in modo indiretto, tramite un passaggio popolare. In Italia, la scelta sarebbe tutta in mano ai partiti.
Con questa riforma, continua Pace, il Presidente del Consiglio vede accresciuti i propri poteri, vengono eliminati i cosiddetti “contropoteri”, come il relatore di minoranza. Il primo ministro, che dai tempi di Fanfani prassi vuole che sia anche il Segretario del Partito di maggioranza, avrà bisogno per formare il suo governo solo della fiducia da parte della prima Camera e potrà forzare la mano ed abusare molto più facilmente dello strumento del Decreto Legge. La Costituzione vuole che questo sia un provvedimento da usare solo in casi “di necessità ed urgenza” (articolo 77), ma la pratica ha dimostrato quante volte sia stato applicato in eccesso.
L’ultimo punto del quesito recita “la modifica del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione”. Dopo la riforma costituzionale del 2001 realizzata dal Governo Berlusconi sulla ridistribuzione delle competenze tra Stato e Regioni, la riforma Renzi-Boschi ne modifica nuovamente il rapporto. Nel nuovo articolo 117 della Costituzione è prevista la potestà legislativa esclusiva sia dello Stato che delle Regioni in alcuni campi determinati. Le materie di capacità legislativa concorrente, però, sono molto confuse e c’è una grossa dimenticanza: la potestà residuale dello Stato.
LE RAGIONI DEL Sì
Sentiamo ora le ragioni a favore della riforma. Secondo il professor Caravita non si tratta affatto di una fase costituente: essa presagisce un nuovo ordinamento, come nel caso del passaggio da Monarchia a Repubblica nel 1946, o l’introduzione di un elemento di rottura, come nel caso della trasformazione da Comunità Europea prima in Unione Europea poi. La sentenza della Corte Costituzionale sul “Porcellum” non ha una lettura univoca: l’incostituzionalità era stata dichiarata pro futuro, in essa non c’era alcun limite temporale, tanto è vero che Giorgio Napolitano accettò di essere rieletto proprio per continuare quel cammino di riforme inaugurato dal Governo tecnico guidato da Mario Monti, iniziato prima della suddetta sentenza.
La riforma Renzi-Boschi è ricca di contenuti che sono da sempre all’attenzione del dibattito costituzionale, in particolare il superamento del bicameralismo paritario e la revisione dei rapporti fra Stato e Regioni. Il modello della nuova camera alta, il Senato delle Autonomie, è analogo a quello di altre democrazie: si tratta di una camera di rappresentanza territoriale, molto comune e non unicamente negli Stati di tipo federale, e di una camera di riflessione. Quest’ultima è una tipica funzione delle camere alte, che hanno, di norma, un minor numero di compiti oltre che di componenti. Grazie a questa riforma costituzionale verrebbe anzi ridotto il numero dei senatori, da 315 a 100: anche le seconde Camere di paesi come Svezia, Spagna o Austria hanno un numero analogo di componenti. Il nuovo Senato può bloccare leggi di competenza statale: in questo caso la Camera deve riapprovare a maggioranza assoluta.
Per quanto riguarda la razionalizzazione dei rapporti Stato-Regioni, secondo il professor Caravita, con la riforma del 2001 sulla ripartizione delle competenze, alcune materie furono erroneamente attribuite alle Regioni. Proprio per materie come Sanità o Istruzione, grazie alla riforma, attraverso le “Disposizioni Generali e Comuni”, lo Stato può garantire un identico trattamento sanitario o una medesima formazione scolastica ai cittadini del Nord e del Sud Italia.
Per mezzo della riforma il Governo gode di una corsia preferenziale per accelerare la legislazione ma se manca la maggioranza parlamentare non può agire: i meccanismi parlamentari sono mantenuti e rafforzati. Infine, l’elezione del Presidente della Repubblica rimane inalterata: anzi per eleggere il successore di Mattarella è necessaria una maggioranza più elevata, pari ai 3/5 dei votanti.
Tutti i meccanismi prospettati con la riforma costituzionale, conclude Caravita, seppur fino ad ora legati alla legge elettorale nota come “Italicum”, potrebbero agire ugualmente anche con un’altra legge elettorale.
Questo dibattito ha cercato di fornire maggiori spunti di riflessione ai presenti (e non) sulla scelta del 4 dicembre. Ognuno farà la sua scelta. Ciò che conta è che sia una scelta ponderata e consapevole.
Carolina Teresi