Per la regia di J. Vanderbilt, "Truth" scava nel mestiere del giornalista d'assalto, quello che per cercare la verità o quella che crede almeno in buona fede sia tale, è pronto a tirare dritto sapendo bene o quasi, a cosa andrà incontro.
Basato sulla storia della giornalista Mary Mapes ( prevista in conferenza stampa ma non pervenuta per un ritardo sul volo che la doveva portare nella Capitale) e sul libro da lei scritto, il film al termine della proiezione strappa applausi ad una parte dei giornalisti presenti, io pur trovando diversi lati positivi, al contrario non sono impazzito.
I premi Oscar Robert Redford e Cate Blanchett interpretano rispettivamente l'anchorman Dan Rather e Mary Mapes. Quest'ultima è una giornalista di punta della Cbs e da diversi anni è la mente del programma "60 minutes" insieme a Dan, suo mentore.
La trama del film si poggia sul "Rathergate", noto negli States, un pò meno in casa nostra. Vanderbilt mette la lente d'ingrandimento sul mestiere del giornalista d'inchiesta. Quello che tocca campi scomodi e che danno fastidio. In particolare qui l'inchiesta va a concentrarsi su George W. Bush e i tempi in cui, stanno alla ricostruzione dei giornalisti, avrebbe ricevuto favori per imboscarsi nella Guardia Civile, evitando deliberatamente di finire in VietNam. C'è di più, il presidente avrebbe persino evitato di prestare servizio per un anno, ricevendo comunque false valutazioni. La bomba esce fuori in prossimità delle presidenziali del 2004, le prime post 11 Settembre. La ricostruzione è minuziosa, dettagliata e ben gestita da sceneggiatori e attori.
I due protagonisti mantengono le aspettative con una prestazione che per quanto li riguarda è in crescendo. Lo stesso non si può dire per il film globalmente.
C'è una frase che in conferenza lo stesso regista ha usato come parabola per descrivere il film: " Ho diretto un incidente stradale al rallentatore". Ecco, per me è proprio qui la pecca. Dopo poco capisci come andrà a finire e tutto si muove al rallentatore. Il film, pur buono, non decolla mai davvero.
La presenza di Redford paradossalmente finisce col torcersi contro il film. Impossibile infatti non pensare a tutti i film precedenti in cui l'attore ha toccato temi in fondo piuttosto simili, con esiti globalmente sicuramente migliori.
In sostanza, forse anche per le aspettative che c'erano su "Truth", si esce dalla proiezione con una punta di insoddisfazione per quel che poteva essere e non è stato.
La sequela di leggerezze e mancanze che i due giornalisti, uniti a quelle dell'equipe che si occupava dell'inchiesta hanno commesso, finisce persino (almeno per come il film presenta la storia) nel non riuscire a farmi empatizzare mai del tutto con Dan e Mary. Un motivo in più per non sposare la linea, neanche troppo nascosta che chi dirige ha adottato, sulla direzione in cui il film si muove: quello dei giornalisti martiri che non si piegano agli abusi e sono pronti ad affrontarne le conseguenze.
Tutto sommato più che sufficente il giudizio globale, nulla di più però.
Un servizio di Alessandro Giglio