E' la storia di due fratelli gemelli gangster londinesi, Reg e Ron. Uno è bello, l'altro no; uno è sentimentale, l'altro no; uno è pazzo, l'altro forse no. Reg si definisce un club owner, il suo obiettivo è possedere un casinò e sposare la bella Frances (Emily Browning). Ron ha passato una buona parte della sua vita in manicomio, è omosessuale (ma un giver - ci tiene a precisare - non un receiver) ed è il lato oscuro della coppia di fratelli, quello che preferisce di gran lunga la violenza ad altre forme di negoziazione.
Ma i confini non sono così netti: anche Reg è violento e irrazionale, solo si preoccupa di nasconderlo, tant'è che proprio atti di violenza - dei quali incolpa ingiustamente il fratello - gli causano non pochi problemi. A tenere ben marcata la differenza fra Reg e Ron, nel gioco di occultamento-svelamento della follia, è proprio la bravura di Tom Hardy: per ogni frame sai sempre e subito chi è inquadrato. Mette su una posa rilassata, biascica le parole, ed è Reg; si mette solo un paio d'occhiali, sputa rabbioso frasi sussurrate e irrigidisce la schiena, ed è Ron. E senza farci accorgere del minimo sforzo. Proprio qui sta la forza di Legend: nel proiettare lo spettatore in quel magnifico immaginario che è la Londra anni '60, con quelle auto e le luci e i pub fumosi e i muri esterni delle case senza intonaco, un panorama tanto scolpito nella nostra mente che davvero non potrebbe essere altrimenti. E i personaggi non possono sembrarci meno reali nella loro assurdità.
E se Tom Hardy non avesse fatto un ottimo lavoro, da qui, il film sarebbe stato un disastro. Forse per questo la produzione di Studio Canal si è affidata ad altri attori di un certo calibro, a differenza di come si usa fare troppo spesso nella scelta dei ruoli comprimari. Così l'osservatore attento scoprirà diverse chicche, ma ve ne anticipo qualcuna: David Thewlis (il compianto Remus Lupin), Taron Egerton (Kingsman), Chris Eccleston (indimenticato Doctor Who), ma anche Paul Bettany (lo riconoscete subito), il magnifico Chazz Palminteri e Duffy che fa la cantante del club di Reg.
Ma a Londra non sempre splende il sole (cinematograficamente parlando, of course). Per una ragione a noi oscura, il regista Brian Helgeland ha voluto, per così dire, smorzare i chiaroscuri del film con l'abbagliante luminosità di una storia d'amore, quella fra Reg e Frances, di cui francamente non ce ne fregava nulla. Helgeland rende la questione amorosa come il punto centrale della narrazione, affidando quest'ultima alla stessa Browning con la solita, insopportabile e inutile voce fuori campo. Forse Helgeland voleva acchiappare il gentil pubblico, dando più importanza a un personaggio femminile. In questo non ci sarebbe niente di male. Ma è un tentativo abbozzato e maldestro, visto lo scarso spessore della personalità di Frances: una ragazza fragile, in modo sia affettivo che finanziario dipendente dal suo amato; dipendente dagli psicofarmaci. Un personaggio, in ultimo, irrimediabilmente perdente.
Ed è un peccato, perché i momenti migliori di Legend sono altri, i più surreali. Ci sono scene veramente pazzesche, che ci ripagano di quei lunghi e noiosi minuti di dialogo sterile fra i due fidanzatini. Come quella in cui, al loro primo appuntamento, Reg - dopo aver assicurato a Frances di non essere un gangster - lascia la ragazza un paio di minuti per andare a pestare un suo sottoposto imbecille. O ancora la lunga ed esilarante scazzottata fra fratelli. Per non parlare di quando ci viene presentata la gang rivale, che tortura un tizio mentre gioca a fare il tribunale, con tanto di giudice e avvocato della difesa. È strana questa sorta di schizofrenia di Legend (visto che Helgeland è sia il regista che lo sceneggiatore), questa doppia ricerca di un'ostentata e assurda virilità (riuscita) e di un "realismo" attraverso la storia d'amore (non riuscita).
Ma, visto che c'è Tom Hardy, gliela perdoniamo volentieri.
di Mario d’Angelo