La fantascienza di Stargate e Indipendence Day e i disaster movie The day after tomorrow e 2012, passando per Godzilla e l’action White House Down: se esiste un regista capace di pensare in grande e di sfruttare gli effetti speciali affinchè il cambiamento climatico o gli alieni distruggano le metropoli americane, quello è Roland Emmerich. Stupisce, pertanto, che un cineasta del genere si sia imbattuto in un progetto incentrato sui diritti civili come Stonewall.
Nel 1969, come recitano le didascalie all’inizio della pellicola, gli omosessuali americani erano fortemente discriminati: non potevano essere assunti da alcun ente governativo, nè bere bevande alcoliche in locali pubblici. Considerati dei malati mentali, venivano “curati” con l’elettroshock. Le prime immagine sono quelle di una rivolta, in un bianco e nero che riproduce la qualità delle immagini di repertorio.
Emmerich ha deciso di raccontare la storia dei moti di Stonewall dopo essersi reso conto di un’inquietante analogia che lega quel periodo a oggi: in visita al Los Angeles Gay & Lesbian Center, ha scoperto che il numero di giovani senzatetto appartenenti alla categoria LGTB si aggira intorno al 40%. Negli Stati Uniti degli anni Sessanta, questi ragazzi erano spesso rifiutati dalla famiglia e dalle loro piccole comunità, così erano costretti a fuggire nelle grandi città e a vivere con mezzi di fortuna tra prostituzione e illegalità.
Cosa c’è di vero. Lo Stonewall Inn era uno dei pochi locali gay di New York. Gestito dalla mafia locale, che pagava la polizia per avere le soffiate su retate e perquisizioni, radunava dal 1966 i gay, le lesbiche e le scare queens (cosi povere da non potersi permettere di travestirsi) del Village, il quartiere bohemiene della Grande Mela. Tre anni dopo, forse a seguito dell’ennesima incursione delle forze dell’ordine, la folla, una volta evacuata dal locale, si ribellò agli agenti costringendoli a ripararsi nell’edificio, che venne attaccato con pietre e bottiglie, e quasi incendiato. La rivolta durò tutta la notte e la stampa ne parlò per settimane: fu l’inizio di una campagna di sensibilizzazione che diede vita ai primi cortei fino all’abrogazione delle leggi discriminanti.
Il film. Danny è un ragazzo in fuga da un paesino dell’Indiana dopo essere stato sorpreso in compagnia di un amico. A New York conoscerà un gruppo di omosessuali con i quali condividerà le prime esperienze di vagabondaggio e prostituzione. Almeno fin quando si innamorerà di Trevor, un attivista per i diritti civili, che lo ospiterà togliendolo dalla strada. Le loro vicende, insieme a quelle di Ed Murphy, proprietario del locale, si incroceranno fino a sfociare nella notte degli scontri.
Girato con una tecnica didascalica e ricorrendo all’utilizzo di clichè e stereotipi, il lavoro di Emmerich non può che limitarsi a informare il pubblico sui moti di Stonewall e non fornisce alcuna interessante chiave di lettura, né un punto di vista autoriale che vada al là di un semplicistico romanzo di formazione farcito qua e là da riferimenti storici. Tutto gira intorno al percorso di consapevolezza del protagonista, che giunge fino alla piena maturazione identitaria, senza però che comprimari e personaggi secondari siano davvero funzionali alla storia.
Il regista tedesco non si sottrae alle regole del cinema commerciale e, quando potrebbe – si pensi alla scena dei container dentro i quali i ragazzi si prostituiscono e al pestaggio di Danny, subito dopo – sceglie di non oltrepassare mai il limite del consentito. Le sequenze girate nel paese di Danny sono quasi tutte fotografate al tramonto, segno di una società bigotta e provinciale che volge inesorabilmente alla fine, ma reiterate a tal punto da risultare stucchevoli. Il gruppo di gay e scare queens che circondano il ragazzo è quasi caricaturale, ad eccezione di Ray, interpretato da un ottimo Jonny Beauchamp, capace di emozionare e di comunicare tutto il disagio possibile derivante da un’esistenza condannata ai margini. Valide inoltre le prove del caratterista Ron Perlman (lo spietato Ed Murphy) e di Jonathan Rhys Meyers, ben equilibrato nel rappresentare l’alternativa pacifica di Trevor all’insurrezione.
Il solo, unico, vero sussulto, Emmerich ce lo offre dove è più a suo agio, ovvero proprio nella lunga scena madere dell’attacco allo Stonewall. Assistiamo a un climax di tensione e violenza quasi schizofrenica nel quale, per la prima volta, la prevedibilità lascia il posto all’adrenalina. Una sequenza corale in cui la forza dirompente della rivolta esplode con la giusta spettacolarità, obbligando i poliziotti a rifugiarsi nel club che detestavano. Un corto circuito inaspettato che riesce, in parte, a risollevare l’attenzione nei confronti di una pellicola dal grande potenziale civico ma che, tutto sommato, finisce per risultare innocua.
di Paolo Di Marcelli