Nei nostri giorni siamo ormai subissati dai supereroi della Marvel, ci sono gli eroi dello sport o del cinema a cui strappiamo, magari obtorto collo, un selfie per strada quando li incrociamo in città. Gli eroi della mitologia classica li lascio perdere e poi ci sono gli eroi dimenticati, quelli di cui i giornali non scrivono e di cui la gente non si occupa. Il protagonista del film di oggi è un padre (e spesso e volentieri i padri eroi lo sono davvero) protagonista di una vicenda terribile e di cui, almeno in Italia, si sa molto poco.
Se c'è da ringraziare qualcuno questo è il regista francese Vincent Garenq, al suo terzo lungometraggio con "In nome di mia figlia". Un grazie forte e chiaro perchè la vicenda in cui ci trascina, tratta da una storia vera ispirata al libro di cui è autore Andrè Bamberski, si prestava facilmente ad un uso voyeristico, cosa che il regista evitata con tutto se stesso. Porta in scena la storia di un dramma umano e di una ferita doppia. Le istituzioni che dovrebbero darci ragione e riappianare le ingiustizie di questo mondo, si chiudono a riccio e ci tradiscono forse ancor di più. E' la storia di un uomo che non perde mai la fiducia in sè, nella verità e nella necessità di rendere giustizia alla propria figlia. Meno di un'ora e mezza di film (già per questo un doppio plauso) che fa dubitare, commuovere, urlare di rabbia e interrogare. In più, per come si dipana, lascia persino un alone di thrilling.
Sinossi
Andrè Bamberski si è separato da poco dalla moglie. Nel 1982 i suoi due figli sono in vacanza in Germania con la madre ed il patrigno, il noto dottore Dieter Krombach quando la figlia quattordicenne muore in circostanze poco chiare. L'autopsia sommaria e con molte falle (volute?) non da le risposte che il padre della bambina si attende. I sospetti di Andrè, sebbene non siano guidati da una pur plausibile gelosia, lo spingono ad indagare e poi accusare proprio il dottor Krombach. La storia che ne segue è una odissea giudiziaria che durerà 30 anni.
Considerazioni
Ottusità, negligenze e assoluta malafede non riusciranno a far condannare il dottore in Germania, nazione che difende oltre il limite del lecito i propri concittadini (la ricostruzione del lato giudiziario è davvero molto meticolosa). Dall'altro lato c'è la meschinità della Francia che non vuole turbare i rapporti con i teutonici. Rimpalli di competenze, scontri sull'estradizione e ostinazione sono al centro di una sorta di legal thriller che ci fa piccoli di fronte al meccanismo complesso della giustizia e degli affari di stato. Ricordiamo che il Ministero della Giustizia francese non ha mai dato il consenso alla possibilità di girare nelle aule dei tribunale francesi.
La caparbietà e la cieca ostinazione di Andrè sono portate mirabilmente sullo schermo da un Daniel Auteuil, rigoroso, essenziale, attento e mai sopra le righe. L'attore francese ha incontrato il personaggio che interpreta ma solo a riprese in corso, con tutta la paura di non essere all'altezza del suo dolore. Se lo avesse incontrato prima avrebbe a suo dire interiorizzato la sua sofferenza e non sarebbe stato libero nell'interpretazione. Visto il risultato non posso certo dargli torto. Ottimo anche Sebastian Koch nel tratteggiare tutte le ambiguità del Dottor Krombach.
Una storia forte, ambiziosa ed al contempo umana col suo sguardo caritatevole ma che non indugia sulla tragedia oltre il lecito. Un film che non vuol essere "furbo" e che sa usare una qualità spesso dimenticata: il pudore. Una storia che andava raccontata per tutte le sue implicazioni. Per la sete di giustizia e per dimostrare che forse, magrado tutto e tutti, nella vita lottare è l'unico modo per imporsi.
"In nome di mia figlia", distribuito da Good Films, sarà nei nostri cinema dal 9 giugno, il consiglio è di non farvelo scappare.
di Alessandro Giglio