Film di chiusura dell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, esce l’esordio cinematografico di Michael Grandage. Fari puntati sull’editing letterario. Dal 9 novembre nelle sale italiane.
Il Donmar Warehouse è un teatro londinese con parecchia storia alle spalle. Scelto dalla Royal Shakespeare Company nel 1977, è stato affidato a Sam Mendes dal 1992 al 2002. Poi, la direzione artistica è toccata a Michael Grandage. John Logan, invece, è uno degli sceneggiatori più quotati degli Stati Uniti (Ogni maledetta domenica, L’ultimo samurai, Sweeney Todd, Hugo Cabret, Skyfall e tanti altri). Mettiamoci, poi, il papa sorrentiniano Jude Law, i premi Oscar Colin Firth e Nicole Kidman (e la partecipazione di Guy Pearce) ed ecco che alla Festa del Cinema di Roma Genius ci ha legittimamente incuriosito.
Si tratta dell’ennesimo film della kermesse capitolina liberamente ispirato a una storia vera. La storia è quella dello scrittore Thomas Wolfe e del rapporto inconsueto col suo editor Max Perkins. Esistono dei grossi ostacoli da superare quando si mettono in scena poeti e scrittori: l’eccessiva verbosità, l’invadenza del voice over, il clichè del genio. Se guardiamo a casa nostra, Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone è riuscito a ritrarre un artista abusato e ingombrante con una forma e un linguaggio originali e contemporanei, sottolineando la (post)modernità leopardiana; se spostiamo l’orizzonte oltre i confini italiani, Jane Campion e il suo meraviglioso Bright star (2009) hanno catturato il senso dell’amore la straordinaria intensità di John Keats. Raramente, di contro, Hollywood riesce a penetrare nell’anima di autori leggendari, rifugiandosi spesso in noiosi spiegoni e rinunciando a reinventare tali personaggi come se non fossero realmente esistiti.
Genius ha il merito di illuminare (ecco lo spiegone, ecco le solite, seppur avvincenti, sequenze didascaliche) la figura dell’editor e il conseguente lavoro di eliminazione chirurgica di qualsivoglia fronzolo narrativo e descrittivo. Specialmente quando si tratta della incontenibile fiumana di pagine che caratterizzava Tom Wolfe.
C’è una scena in particolare, molto intensa, che sembra proprio una lezione di scrittura, e potrebbe essere utilizzata ogni qual volta abbiamo il bisogno di mettere a fuoco il cuore pulsante di un pensiero o di un sentimento. C’è poi un parallelismo intelligente tra prosa e jazz che, forse, riguarda il passaggio più meritorio della pellicola. Per il resto, l’opera di Michael Grandage viaggia su binari troppo conosciuti, promettendo un confronto/scontro tra il genio affabulatore e il sobrio accademico che preannunciava un’interessante crisi esistenziale da ambo le parti ma che, dopo tutto, lascia sul campo ben poche vittime. Resta la curiosità nel recuperare un autore poco conosciuto che, a giudicare dai passi riportati, sembrava davvero ispirato da una musa extra-terrestre. Consigliamo, ove possibile, la visione in lingua originale perché il trio Law-Firth-Kidman (e Pearce che interpreta un sorprendente Francis Scott Fitzgerald sull’orlo del fallimento economico e creativo) merita tutto il bene del mondo.
di Paolo Di Marcelli