Gli anni Novanta hanno visto al cinema un'esplosione di trasposizioni cinematografiche di opere shakespiriane. Oltre alle celebri ambientazioni ottocentesche di Kenneth Branagh e quella quasi pulp di Baz Luhrmann, c’è stato anche Titus di Julie Taymor, passato quasi inosservato a causa del flop al botteghino, nonostante sia una delle più suggestive e interessanti creazioni del genere. Come raccontare al cinema una tragedia elisabettiana, sicuramente la più violenta e fosca, segnata da una crudeltà esasperata, quasi splatter, come il Tito Andronico di William Shakespeare? Forse l'unico modo era quello di concedersi alla fantasia più scatenata, puntare sulle commistioni temporali più assurde, trasformare la violenza in un grande balletto nero. Girato in buona parte a Roma nel 1999, con protagonisti Anthony Hopkins a Jessica Lange, la pellicola propone un'inedita immagine di Roma, mostrandoci l’Impero Romano come una dittatura mussoliniana, ulteriormente attualizzata nei costumi e nelle ambientazioni.
Il risultato è il ritratto di una città metafisica reale e al contempo immaginaria. Com'è nata questa idea? Inizialmente la regista voleva intrecciare la Roma antica a quella barocca dei Papi ma, giunta nella capitale per i sopraluoghi, restò fulminata dalla visione del Palazzo della Civiltà del Lavoro, il cosiddetto Colosseo quadrato. Probabilmente influenzata anche dalla produzione di Orson Welles, del 1937, che con la sua compagnia teatrale portò in scena il Giulio Cesare vestendo i suoi protagonisti con uniformi simili a quelle nazifasciste, tracciando così una specifica analogia tra Cesare e Benito Mussolini, Julie Taymor ha infine deciso di omaggiare l'idea aggiungendovi un suo tocco personale.
Dal punto di vista iconografico ciò che colpisce maggiormente di Titus è proprio la sovrapposizione fra antico e moderno: i Fori imperiali e l'Eur, le toghe dei romani sopra gli smoking, le spade e le armature romane e i guerrieri in sella a motociclette, sacrifici umani e stazioni radio, donne tatuate vestite in lattice e acciaio. Un “pastiche” tra il fetish e il cyberpunk così abile nella miscela dei dettagli da risultare assai più riuscito del “Romeo+Giulietta” di Baz Luhrmann.
Una chicca per concludere: nella scena in cui Saturnino e Bassiano fanno propaganda per essere eletti come nuovi imperatori di Roma, causando non pochi disordini tra le rispettive fazioni, ciascuna sventola i colori del suo signore: riconoscerete sicuramente i colori delle squadre calcistiche Roma e Lazio.
di Giulia Caputo