Se pure a Cannes aveva diviso, questo film ha il potere di "dividere" persino me che ne scrivo. Se avrete pazienza capirete cosa sto dicendo. Le aspettative erano tante dopo la folgorazione di Mommy, il primo film che vidi dell'autore canadese ( gli altri l'ho recuperati in seguito). 27 anni e già sei lungometraggi all'attivo con un settimo in itinere, dicono un pò della vena creativa e del bisogno dell'uomo/ragazzo di esprimersi. E' solo la fine del mondo è per la prima volta un lavoro "meno suo". Pur essendo tratto dalla piece teatrale di Jean-Luc Lagarce, Xavier Dolan firma comunque la regia, il montaggio e ne è co-produttore.
Stavolta ad invogliare maggiormente il pubblico c'è anche un cast di caratura internazionale col gotha del cinema francese: da Vincent Cassel a Marion Cotillard, da Nathalie Baye a Gaspard Ulliel e Lea Seydoux.
LA TRAMA
Louis manca 12 anni da casa ed il motivo che lo spinge a farvi ritorno è assai doloroso. Affetto da una grave malattia, sa di dover morire di li a poco. Malgrado la distanza con la famiglia non sia stata solo fisica in tutti questi anni, una parvenza di nostalgia mista a senso di colpa lo spingono a questo passo per lui così difficile.
C'è un mondo che lo divide dai suoi familiari. Ad accoglierlo al suo rientro una sorella eccitata e felice ( Lea Seidoux esuberante e torrenziale ) che ha vissuto questi anni nella venerazione del fratello scrittore affermato, benchè lui sappia poco, forse nulla, di lei. La madre (Nathalie Baye è quella che mi sorprende di più in positivo per la sua interpretazione. Martine è stralunata solo all'apparenza e tra tutti è probabilmente la sola ad avere il polso della situazione. Il fratello Antoine ( un brusco e troppo monocorde Vincent Cassel) cerca di dissimulare un malcelato complesso d'inferiorità nei confronti del fratello Louis. La più pacata di tutti è chi nella famiglia c'è entrata sposandone un membro. Si tratta di Catherine: bella prova quella di Marion Cotillard.
COSA ME NE PARE
La struttura narrativa è gioco forza un pò statica perchè Dolan non vuole snaturare il testo di Lagarce. Lo stesso testo che, seppure consigliato da Anne Dorval (Mommy), il regista aveva "snobbato" anni prima non capendone appieno i risvolti. Per cercare di animarlo punta su tutta la vitalità registica di cui è capace. Solo che stavolta, almeno in certi frangenti, risulta eccessiva. Non sono il solo a percepire la voglia del cineasta di voler dimostrare a tutti i costi d'esser non solo bravo ma magari un genio. Scene di confronto corale si alternano a lunghi "duelli/dialoghi" a due, cui fanno seguito "botte" di musica pop sparata a cannone nelle orecchie dello spettatore. Il senso di oppressione feroce che tutti i personaggi vivono, passa immediatamente sullo spettatore. Questo può essere un punto di forza come pure critico però. Gli attori infine, sembra paradossale scriverlo, sono quasi troppo bravi. L'originalità dei primi lavori unita alla loro sincerità, ne erano stati il punto di forza. Ora quei precedenti sembrano far a cazzotti con una messa in scena così barocca e che in taluni momenti m'ha fatto pensare ai peggiori film nostrani in cui le urla uccidono trama, attori ed ahimè spettatori.
Scene da ricordare ce ne sono, va detto: su tutte quella tra madre e figlio che s'appartano sfuggendo per qualche istante il caos familiare. Toccante il flashback in cui Louis ricorda un suo amore di gioventù. E' in questi momenti che si fiuta tutta la forza e la potenza di Dolan. Purtroppo però non è sufficiente a farmi amare il film nel suo insieme. Il cast, pur eccellente, non fa il miracolo, anzi forse appesantisce il tutto. O forse è proprio il testo originale quello del quale non subisco il fascino.
Esco dalla sala diviso quasi a metà. Da una parte l'ammirazione per certe sequenze davvero sopra la media ed altre che mi fanno domandare se alla fine della fiera il tutto non si riduca ad un esercizio di stile. Si voleva puntare sulla incomunicabilità ma si finisce più verosimilmente per piombare nella confusione. Peccato poi per quel finale simbolico e così banale. Insomma, più no che sì, me ne sono convinto scrivendone a voi.
di Alessandro Giglio