C’è un ragazzino bullizzato dai compagni di classe, eppure Sette minuti dopo la mezzanotte parla d’altro. Sua madre è malata, ma non è lei la protagonista. C’è Sigourney Weaver che fa la nonna, quella che tutti vorremmo avere: giovane, severa solo in apparenza e con un cuore grande così. Ma è chiaro che non sia lei quello del film. Chi è il mostro? Siamo dalle parti del Labirinto del fauno (Eugenio Caballero è lo stesso scenografo del film di Del Toro, che gli valse un Oscar): Liam Neeson dà la voce (e le espressioni) a un albero gigante che esiste solo nella mente del protagonista. Il mostro – il titolo originale è A monster calls – farà visita a Conor sempre allo stesso orario per raccontargli tre storie, dopo di ché, gli dice, dovrà essere lui a narrargli la quarta. Perché?
Juan Antonio Bayona svela le carte con la calma dei grandi maestri. Quale sia l’anima della pellicola lo intuiamo dall’inizio, eppure il regista di The impossible ci distrae con un impianto fiabesco a metà tra Andersen e Inside Out. Solo che qui non si tratta di rifarsi una vita in città, ma del trauma più grande che possa capitare a un bambino. Così come gli snodi del film, anche i personaggi assumono via via sempre maggiore spessore. Il padre, ad esempio, un delicato Toby Kebbel, compare quasi dal nulla per poi ritagliarsi uno spazio importante. La nonna, alla fine, sarà decisiva. Ma è l’alchimia tra Felicity Jones e Lewis Macdougall, nonostante il minutaggio che li vede insieme sia inferiore a quello tra il giovane attore e l’albero, ad essere il vero asso nella manica di Bayona. Sette minuti dopo la mezzanotte indaga con grandissimo rigore i giorni che precedono il lutto e impartisce una disarmante lezione morale.
Il punto di vista è quello del piccolo Conor, di cui il regista seziona tutte le dimensioni della vita senza escludere niente e nessuno, ma come ogni storia che funziona davvero la prospettiva è, metaforicamente, quella di tutti coloro che si sono trovati a perdere qualcuno. Il regista spagnolo riesce ad evitare la retorica e non ha la presunzione di imporre un’idea universale su come prepararsi alla morte: quella raccontata resta una delle innumerevoli varianti, nata dalla penna di Patrick Ness, qui anche sceneggiatore. Di più: la tragedia raccontata è anch’essa una metafora per ricordarci che non esistono sensazioni giuste o sbagliate da provare in momenti del genere. In questo senso, Sette minuti dopo la mezzanotte è un film radicalmente umanista che ci invita ad accordare i nostri nervi scoperti.
Paolo Di Marcelli