Il filo spinato che unisce l’America alla guerra attraverso tre veterani (un prete, un alcolizzato e un uomo in lutto) che si ritrovano dopo trent’anni: Richard Linklater adatta per il cinema il romanzo di Darryl Ponicsan, del 2005, sviluppando una sceneggiatura già pronta l’anno successivo quando i tempi, però, come ha ammesso il regista, non erano ancora maturi. La storia, ambientata nel 2003, è quella di un uomo rimasto solo (Steve Carrel) che si rivolge a due vecchi amici conosciuti durante il conflitto in Vietnam per accompagnarlo al funerale del figlio, soldato ventenne caduto in Iraq. La verità ufficiale sulla sua morte sarà tristemente smascherata e il trio, non senza qualche iniziale malumore, comincerà un viaggio tra imprevisti e vecchi ricordi per riportare a casa la salma.
Generalmente, l’idea di base del road movie è quella di far maturare ed evolvere i personaggi durante il viaggio affinché all’arrivo siano sostanzialmente diversi, nel bene o nel male, rispetto alla partenza. Nessuna eccezione per l’autore di Boyhood e della Trilogia del Tramonto, da sempre attento al ruolo del tempo sulla vita dei suoi personaggi: in questo caso, più che una progressione verso qualcosa di nuovo, Linklater si concentra sulla (ri)scoperta dell’identità e sul confronto tra la generazione dei padri con quella dei figli. Oltre alla bugia di Stato, cadranno quelle che i protagonisti raccontano a sé stessi dalla fine del servizio militare. Se all’inizio abbiamo di fronte tre archetipi inconciliabili con la missione da affrontare, lentamente assistiamo a un ritorno alle origini (gli anni folli e indimenticabili del Vietnam, segnati da un’autentica amicizia) legato un profondo senso di appartenenza, nonostante tutto, all’America dei sogni giovanili. Ciò che finisce per legare di nuovo e indissolubilmente Doc, Sal e Richard, è il senso del dovere per ciò che va fatto, a prescindere dalle derive di un Paese che corre più veloce di quanto dovrebbe.
La parabola di Larry “Doc” Shepherd permette a Steve Carrel un’interpretazione sorprendente. La disperazione e la solitudine lasciano pian piano il posto a un carattere sì fragile ma ostinatamente determinato verso la cosa giusta da fare. La scena nel vagone merci, così come per gli altri attori, è sostenuta con un cambio di registro e intensità davvero notevoli. Laurence Fishburne è un collante necessario e molto divertente, specialmente nella prima parte, che umanizza a dovere l’anima religiosa del gruppo. A rubare la scena, tuttavia, nonostante la sua prova a briglie sciolte non raggiunga la meravigliosa compostezza di Carrel, è il Sal Nealon di Brian Cranston: un personaggio a tutto tondo in bilico tra la coscienza interiore dei tre e il “vecchio pazzo” attraverso la quale si manifesta, tra eccessi e gesti plateali. Nelle numerose conversazioni, Linklater riprende i tre attori quasi sempre nella stessa inquadratura, limitando al minimo l’uso del campo e controcampo. Nel 1973 Ponicsan, che servì la Marina degli Stati Uniti negli anni Sessanta, scrisse The Last Detail, una storia di tre giovani reclute diventata poi un film (L’ultima corvè) di Hal Ashby con Jack Nicholson. Secondo le parole dello stesso autore, Last Flag Flying potrebbe definirsi un sequel ideale.
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Paolo Di Marcelli