Ci si augura sempre, partecipando a un festival, di scovare in via fortuita e insospettabile il film dell’innamoramento, la pellicola che poi ti spinge a voler conoscere ogni particolare del cast tecnico e artistico, i precedenti del regista, che ti impone il passaparola e ti porta a congiungere le mani non solo per il bene di quella storia ma proprio per una questione di principio affinché le sia concessa la distribuzione italiana, anche minima. Proprio nel giorno del pretenzioso e dimenticabile Birds without names del giapponese Kazuya Shiraishi, di cui scriveremo a breve, ci siamo imbattuti nel pomeriggio nell’ultima replica di questo film brasiliano, diretto da un certo Selton Mello, dal tipico titolo da opera prima – e invece si tratta del terzo lavoro – capace di evocare ambiguità autobiografiche o comunque dichiarative. Un regista sconosciuto almeno fino a un minuto prima della proiezione, quando improvvisamente è comparso al centro della Petrassi per presentarsi, ringraziare il pubblico, spendere due parole sulla propria creatura – “Ci tengo molto” – e per segnalare la sua disponibilità a chiacchierare alla fine delle due ore. Applausi.
Il film è un racconto di formazione ambientato in un paesino del sud del Brasile negli anni Sessanta. Protagonista un giovane professore, poco più che ragazzo e appassionato di cinema, che si trova a fronteggiare la sua prima cotta e l’abbandono del padre (un Vincent Cassel a suo agio nel recitare in portoghese e nel ruolo di uomo integerrimo e misterioso). Intorno a loro la madre, l’amico di famiglia (Mello stesso), la ragazza oggetto del desiderio (una splendida Bruna Linzmeyer, attrice e modella venticinquenne dal fascino adolescenziale, imperfetto e tracimante) e sua sorella maggiore. Una storia semplice, focalizzata su pochi momenti decisivi che si prendono tutto il tempo necessario per descrivere a fondo la psicologia e il carattere dei personaggi.
The movie of my life si avvale di una splendida messa in scena. Non capita spesso di ammirare inquadrature così armoniose, calibrate dal punto di vista cromatico e dal gusto pittorico da perdere il filo delle battute. Walter Carvalho, direttore della fotografia di Walter Salles in Central do Brasil, lavora molto su atmosfere pastello dalle tonalità tenui e sfumate che donano il fascino letterario di una pagina ingiallita – Mello e Marcelo Vindicatto hanno adattato per lo schermo il romanzo A distant father del cileno Antonio Skármeta, autore del Postino di Neruda che ha ispirato il film con Troisi. Una scelta visiva collegata anche a una componente melò che attraverso le frequenti conversazioni punta ad esaltare lo sguardo e i primi piani dei protagonisti, ognuno messo sotto una vera e propria lente d’ingrandimento. Altro aspetto decisivo è infatti quello di una scelta di cast che vince su tutta la linea. Come ogni libro del cuore che si rispetti, ogni personaggio non potrebbe che avere quella faccia, quel modo di parlare, sorridere e provare dolore – il giovane sognatore, romantico e inquieto (Johnny Massaro), una madre triste, gentile e bellissima (Ondina Clais) e Petra, giovane femme fatale (Bia Arantes).
Ma l’abiltà più grande di Selton Mello, vera e propria star in patria prima come attore e poi come regista grazie a The Clown, scelto per gli Oscar 2012, e alla versione brasiliana della serie In Treatment, consiste nel riuscire ad allestire un’esperienza visiva e uditiva trascinante. Ogni scena è curata in modo tale da risultare indispensabile, e ognuna riesce a essere diversa dall’altra: dagli omaggi a Fellini e alla Nouvelle Vague all’uso incessante della musica, come il ralenti all’uscita dal cinema di Tony e Luna, al loro primo appuntamento - con quella canzone francese in sottofondo che assomiglia a uno dei tanti momenti del cinema di Dolan. Un’opera, poi, in cui il cinema stesso (con i suoi feticci più frequenti come il treno, la motocicletta, la bicicletta, il bordello, e soprattutto la sala cinematografica) diventa oggetto e soggetto della narrazione, passione decisiva per lo sviluppo esistenziale del protagonista e teatro degli episodi più importanti della storia, ma anche metafora, come suggerito dal titolo, di una vicenda che procede attraverso inquadrature simboliche che amplificano il senso della sceneggiatura (due su tutte, l’inizio e la fine). The movie of my life, in bilico continuo tra dramma e commedia, amore e abbandono, relazioni familiari e di coppia, è un affresco misurato e dirompente dell’adolescenza che diventa maturità, un’opera luminosa capace di trasmettere un senso genuino di speranza e responsabilità tale da meritare, almeno, una seconda visione.
Foto: Paula Huven e Getty Images
Paolo Di Marcelli