I, Tonya è un biopic che evade dalle sbarre di un genere troppo spesso prigioniero di una noiosa prevedibilità. Così capace di unire comicità, commedia e dramma, così abile nel dedicarsi con estrema cura ad ogni personaggio e così libero dall’ossessione del riassunto esaustivo e fedele dei fatti realmente accaduti, il nuovo film con Margot Robbie riesce a camminare sulle proprie gambe al di là del fardello della “storia vera”. La sceneggiatura di Steven Rogers riesce a condensare in ogni singola scena il tono specifico del film, evitando che gli episodi più cupi della vicenda umana e sportiva della Harding non eccedano mai nel pietismo e ricordando allo spettatore di trovarsi sempre entro i limiti di grottesco illuminato e luminosissimo, seppur velato da contorni poco rassicuranti. Si tratterebbe comunque di un cinema senza sussulti se non ci fosse, poi, l’idea precisa di messa in scena che il regista Craig Gillespie comunica in ciascuna inquadratura e movimento di macchina: a partire dalle virtuosistiche riprese sul ghiaccio, la telecamera è sempre vicinissima ai personaggi, ne cerca continuamente volti e dettagli, spesso girandoci intorno enfatizzando allo stesso tempo la solitudine - nessuno escluso - e la voglia di sondare l’enorme carico di umanità che si portano dietro. Il marito Jeff, ad esempio, incapace di non ricorrere alle mani nei frequenti litigi, anche grazie a una felice scelta di casting (Sebastian Stan) riesce nell’incredibile impresa di non risultare odioso o antipatico.
Tonya Harding è stata una pattinatrice artistica negli anni Novanta. Divenne famosa un po’ perché refrattaria ai modelli di comportamento da “perfetta americana” richiesti dai media e dai giudici di gara ma soprattutto in seguito allo scandalo di proporzioni mondiali che la vide coinvolta nell’aggressione di un’avversaria in vista delle olimpiadi. Il film ne racconta la storia fin dall’infanzia, dai primi allenamenti con l’allenatrice quasi materna (Julianne Nicholson) alle prime vittorie, passando per il matrimonio col primo ragazzo della sua vita fino ad arrivare alle competizioni importanti – fin qui il mood folle e politicamente scorretto conferma uno standard frenetico a cavallo tra diversi generi - e infine al piano, a sua insaputa, per mettere fuori dai giochi la sua amica/nemica – da qui in poi si aggiunge l’omaggio allo stile dei fratelli Coen nel raccontare azioni criminali ad opera di perfetti idioti. Molti biopic sulle celebrità giocano sullo scarto tra l’amore non corrisposto o l’abbandono di un genitore e l’affetto tributato da fan e ammiratori. In questo caso il clichè è solo un punto di partenza che serve a focalizzare una delle molte anime del film, anche grazie ad una Allison Janney strepitosa - una madre quasi militarizzata. La vera sorpresa (o l’ennesima conferma), tuttavia, riguarda l’interpretazione di Margot Robbie, attesissima, al suo primo ruolo da protagonista: credibile sui pattini, perfetta nell’incarnare un’eterna adolescente muscolare e sgraziata, ma soprattutto nel sobbarcarsi la tragedia di chi è costretto a barattare un talento purissimo con le devianze disfunzionali della provincia, non solo americana.
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Paolo Di Marcelli