Woody Allen ha ancora molto da dire e noi non avevamo dubbi. C’è chi afferma che da anni l’autore americano scrive sempre lo stesso film ma basterebbe il binge watching dei suoi ultimi lavori per farsi un’idea di quanta varietà possa ancora nascondere il suo cinema. Magic in the moonlight riusciva ad essere una commedia solidissima nonostante l’inaudita prevedibilità e sanciva a ragione Emma Stone come nuova musa in ascesa; Irrational man era un ritorno alla riflessione su delitto e castigo in grande stile; Cafè Society umanizzava grazie alla fotografia di Vittorio Storaro le atmosfere di Los Angeles e New York polarizzandole tra ragione e sentimento: d’accordo, al centro di tutto regnavano gli immancabili triangoli amorosi, i tradimenti e le riappacificazioni, ma siamo onesti, c’è davvero qualcuno che sa mettere in scena tutto questo meglio di Allen?
La ruota delle meraviglie non fa eccezione e rilancia alla grande i temi ricorrenti della filmografia del regista: c’è l’aspirante drammaturgo cui è affidata la voce narrante (Justin Timberlake); un capofamiglia burbero ma in fondo amorevole (Jim Belushi, visto ultimamente in Show me a hero e Twin Peaks); la linea comica affidata a un problematico ragazzino piromane e catalizzatore di una famiglia a pezzi; una lolita pronta a detonare un equilibrio instabile come accade in Crisis in six Scene; ma soprattutto un nuovo personaggio femminile incarnato dal talento maturo di Kate Winslet. Sullo sfondo, il parco dei divertimenti della Coney Island degli anni Cinquanta, già dimora di Alvy Singer bambinoin Io e Annie, ricostruito anche grazie agli effetti pop e coloratissimi della computer grafica che si ispirano alle illustrazioni di Norman Rockwell. La novità, in questo caso, consiste nell’impostare la storia come una tragedia dolente sul sogno infranto.
Stavolta siamo dalle parti di Blue Jasmine: i personaggi appartenevano o vorrebbero appartenere al mondo agiato e upper-class tipico delle storie di Allen e si ritrovano impantanati in uno stallo che tutti sottovalutano come temporaneo ma che invece si rivela irrimediabilmente perpetuo. Il Mickey di Timberlake più che dalle proprie doti di scrittore è sedotto dall’ideale romantico di un simile ruolo e, ammesso che il trauma del finale non possa smuoverlo dalla mancanza di attitudine, probabilmente sarà destinato a opere mediocri; Humpty, ex alcolista, sta ancora scontando gli effetti di un lutto e per far quadrare i conti rischia di rimetterci; Carolina (Juno Temple nel ruolo di un’intrigante bellezza naive) era la moglie di un gangster abituata al lusso ed ora è costretta a rompere un piatto dopo l’altro in un ristorante per turisti. Tutti brillano della luce riflessa dalle infinite possibilità della vita, resa feticcio dalla wonder wheel che domina il parco, e sono mossi dalle illusioni che quei colori sembrano promettere a ognuno di loro.
La Ginny di Kate Winslet, ex attrice felice abbandonata dal marito (musicista jazz) dopo averlo tradito, nel grigiore di un’esistenza continuamente in debito nei confronti di Humpy, si infiamma e inizia a confidare in un futuro di felicità con Mickey brillando della stessa luce dei sogni che non si avvereranno mai. Vittorio Storaro compie un lavoro espressionista con le diverse gradazioni di rosso e di blu a partire dalla ruota del titolo, che abbaglia con la sua luminaria l’abitazione sottostante dei protagonisti, per poi spingersi oltre e cambiare il tono della fotografia anche repentinamente nella stessa inquadratura, come dimostra fin dall’inizio facendo calare la sera in un batter d’occhio. Si tratta di una luce teatrale, eccessiva, centrale più di quanto lo fosse stata nel film precedente perché stavolta intimamente collegata non ai luoghi ma alle persone e ai loro slanci vitali. In questo senso, La ruota delle meraviglie alimenta e fa girare in moto continuo e beffardo esistenze modeste che prendono la vita sul serio e non tollerano devianze, errori e infedeltà come invece farebbero la gran parte dei personaggi alleniani. L’incapacità di prenderla con leggerezza, per indole o per circostanze avverse, permette al regista di Manhattan di ricordarci attraverso una sceneggiatura impeccabile le conseguenze psicologicamente irreparabili di un’esistenza senza via di fuga.
Paolo Di Marcelli