Quando scegli di scrivere un film basandoti su un elenco di canzoni di successo, in teoria, dovresti ricordarti di sviluppare una storia che abbia più a che fare con le regole del cinema che con quelle dello show musicale in senso stretto. In quel caso, puoi anche permetterti di incentrare tutto, o quasi, sulla bellezza delle coreografie, sui costumi o sulle voci, insomma su un’idea di intrattenimento che preferisce la meraviglia della spettacolarità alla fiction in senso stretto. Mamma Mia!, pur preferendo la prima di queste due direzioni – e giocandosi male quasi tutte le carte – per lo meno aveva il pregio di conservare dall’inizio alla fine un’idea tematica sufficientemente azzeccata, ovvero il mistero da risolvere su chi, tra Pierce Brosnan, Colin Firth e Stellan Skarsgård, gli amori giovanili della protagonista, fosse il padre di Sophie (Amanda Seyfried).
Mamma Mia! Ci risiamo, firmato da Ol Parker (regia e sceneggiatura) amplifica le lacune del primo capitolo commettendo errori di puro nonsense non appena i personaggi cominciano a muoversi. Si tratta, stavolta, di un prequel/sequel come fu Il padrino – Parte II, nel senso che gli eventi ripartono da dove si sono interrotti ma, contemporaneamente, buona parte della pellicola - circa la metà - è affidata a flashback che mettono in scena ciò che nel film precedente era soltanto evocato: la triplice e breve storia d’amore di Donna che la porterà alla gravidanza senza sapere chi, tra i tre, sia il papà di sua figlia. A stonare sono le dichiarazioni d’amore eterno di Lily James (già vista in Baby Driver, che qui interpreta il ruolo che fu di Meryl Streep) dopo neanche due giorni di corteggiamento e, soprattutto, senza che il bello di turno abbia fatto nulla per meritarselo e senza una messa in scena decente dell’infatuazione. Le canzoni, quasi tutte uguali a quelle di Mamma Mia!, questa volta sono davvero troppo forzate rispetto alla sequenza che aprono o chiudono; inoltre alcuni dei personaggi secondari hanno la sola funzione di strappare un’eventuale risata giocando su qualche stereotipo legato alla grecità. E poi Andy Garcìa, che peccato, intrappolato in un altro stereotipo, quello del seduttore latino, preso di peso dalla pubblicità dell’amaro Averna e catapultato in un musical in cui non canta mai da solo ma soltanto in coppia. Infine, le coreografie, che di fatto non esistono, dato che ci si limita a qualche mossa facile facile o a “balli di gruppo” con molte comparse in cui ognuno si muove come vuole.
Onestamente nessuno si aspettava che il film fosse migliore di quello del 2008, considerando anche il fatto che all’epoca le vendite del dvd registrarono un record e, come si dice, squadra che vince non si cambia. In questo caso, però, in pochi si aspettavano che la trama fosse così esile, sfilacciata, quasi inesistente. L’abbiamo visto all’anteprima di martedì 24 e abbiamo già dimenticato cos’è che tiene insieme la storia, qual è il vero motivo dei flashback e in che modo i personaggi sono cambiati: in poche parole, se ci chiedete cosa succede, non ve lo sapremmo raccontare. Abbiamo assistito a un opera-omaggio che rimanda di continuo a quella precedente e senza la quale non riuscirebbe a reggersi, in cui quel poco di buono presente dieci anni fa, oltre all’interrogativo sulla paternità sopracitato, ovvero la prorompente “luminosità” di scenografie, panorami, colori e personaggi, qui rischia di essere messa in secondo piano da un vago senso di responsabilità che dovrebbe contaminare i protagonisti, finendo invece per gettare delle ombre prive di senso. Stavolta, purtroppo, crediamo che anche i fan della prima ora si accorgeranno di quanto non basti il solo effetto nostalgia, peraltro così assurdo e sproporzionato da impedire qualsiasi evoluzione narrativa.
Paolo Di Marcelli