Dopo i 18 minuti di applausi strappati a Cannes senza però portare a casa nessun premio, arriva finalmente nelle nostre sale l'ultima fatica del regista bretone.
Ottavo lungometraggio del cineasta e quarto episodio del sodalizio tra Brizè e Vincent Lindon ( ormai sempre più suo attore feticcio) con In Guerra torna evidente l'interesse del regista per il tema del lavoro dopo la
A differenza de La legge del mercato, che valse nel 2015 il premio come miglior attore a Lindon, i toni qui, il titolo lo annuncia ben chiaro, si alzano notevolmente. Siamo di fronte ad un film tosto, duro, persino violento oltre che spiccatamente politico.
La trama del film gira intorno alle rivendicazioni di un gruppo di operai francesi. Dopo aver siglato un accordo sindacale nel quale si chiedevano sacrifici che comportavano riduzioni del salario a fronte di ore in più di lavoro al fine di scongiurare la chiusura dello stabilimento, ora sono in procinto di perdere il posto di lavoro perchè secondo l'azienda non più produttivi. Due i temi sul tavolo; un patto che viene ignorato e scavalcato ed una menzogna di fondo: malgrado gli aumenti evidenti dei profitti, la scelta di serrare i battenti e delocalizzare.
Come già nel precedente, anche in questa occasione Brizé sceglie di affiancare a Lindon tutti attori non professionisti e la scelta si dimostra non solo azzeccata ma vincente così come la scelta di usare diverse tecniche di ripresa a seconda dei momenti e delle situazioni. E' evidente soprattutto la differenza quando si indugia sul lato privato del protagonista e quando lo si vede in prima fila durante le marce, le occupazioni e le schermaglie dialettiche con i rappresentanti dell'azienda Perrin Industries.
Brizé ha inteso mettere in luce quel che accade dietro le immagini che i media ci mostrano durante situazioni similari in giro per il mondo. Cosa c'è dietro la violenza che spesso si scatena tra i dipendenti, o se preferite i salariati, come più volte nel film vengono chiamati gli operai francesi? Un rabbia che monta in un crescendo generato da frustrazione, spesso umiliazione, paura e disperazione pura.
Vincent Lindon, ancora una volta impeccabile, interpreta uno dei rappresentanti sindacali, quello se vogliamo più integralista e non disposto a fare un passo indietro, conscio del fatto che arretrare di un metro con l'interlocutore porterebbe solo ad una rinegoziazione dei termini di buonuscita, non al mantenimento del LAVORO ( almeno per gli altri due anni pattuiti).
In guerra è maniacalmente ricostruito in tutti i suoi passaggi, le piccole vittorie, gli sbandamenti, le battute d'arresto, le divisioni inevitabili tra chi sta affogando e non spera più e chi di smettere di lottare non vuole sentirne parlare.
Siamo di fronte ad un film che se parla di economia e scelte strategiche, non smette mai un attimo di parlare al cuore di chi il film lo guarda. Ci sono forse alcuni frangenti in cui le dinamiche si ripetono e che probabilmente avrebbero potuto essere stralciate. Ne avrebbe giovato l'equilibrio del film e la sua brillantezza: 113 minuti si fanno sentire.
Al netto di ciò si esce dalla sala, non solo con l'inevitabile magone, ma con una mente affastellata di dubbi, domande e riflessioni. E' un cinema che fa bene quello di Brizè, perchè ci racconta come pochi altri suoi colleghi ( i Dardenne e Ken Loach su tutti) uno spaccato che interessa milioni di persone ma di cui sembra troppo spesso non ci sia traccia. Lo fa con occhio sensibile e con l'accortezza di prendere una posizione politica senza volercela imporre con la forza, una scelta da apprezzare.
Gallery fotografica e articolo a cura di Alessandro Giglio