La conosciamo come attrice (David di Donatello 2017 per La Pazza Gioia di Virzì), meno come regista. Valeria Bruni Tedeschi è al suo quarto film dietro e davanti la macchina da presa dopo È più facile per un cammello…, Actrices e Un castello in Italia, tutti scritti insieme a Noémie Lvovsky e Agnès de Sacy.
Costa Azzurra, una villa-museo a picco sul mare con guardia all’ingresso – il capofamiglia è un ex-industriale che teme le ritorsioni dei dipendenti licenziati dopo aver dichiarato bancarotta. Un’intera famiglia in vacanza (“mi sono ispirata alla trilogia della villeggiatura di Goldoni”), tre generazioni a confronto, la servitù sottopagata, un lutto, un abbandono cocente in un film francese da camera o quasi con dialoghi fiume e una recitazione sotto e sopra le righe.
Non è l’opera leggera che sembra, almeno dal trailer, I villeggianti, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia. Tanti i temi in gioco e i personaggi, quest’ultimi raccontati con lo sforzo sovrumano di scandagliare per ognuno una geografia tanto ampia e meditata quanto simbolica e universale. Oltre al meticoloso lavoro di scrittura, si percepisce il gran numero di prove necessarie a mettere in scena le sequenze corali e i lunghi dialoghi in cui le due macchine da presa (“per non usare gli attori con campi e contro-campi e per cogliere momenti inattesi, a volte rubati”) riescono a riprendere il flusso di emozioni e sentimenti sospesi tra commedia, dramma e melò.
Accenni alla lotta di classe, cos’è la destra e cos’è la sinistra – illuminante e beffarda la risposta che viene data - e quindi un film politico, seppur sottilmente, anche solo nel ribadire, forse non proprio con tutta la ragione del mondo, che i turbamenti dell’anima prevalgono sempre su quelli del portafoglio. Il prezzo da pagare è che le rivendicazioni di maggiordomi, cuochi, giardinieri e governanti se da una parte restano inespresse, dall’altra aleggiano come una rivoluzione imminente. E c’è un po’ di Downton Abbey, ne I villeggianti, perché ricchi e poveri (tutt’altro che vittime innocenti) vivono paralleli, si confrontano e si sfiorano, ma laddove nella serie inglese ci si conforma ai dettami del pudore, qui si arriva al cunnilingus e a un sesso grottesco e liberatorio capace di infondere anche una certa tenerezza.
Curioso come in un’intervista la Bruni Tedeschi abbia dichiarato che al montaggio tutti si siano accorti che la figlia di neanche dieci anni sembra l’unico personaggio adulto del film. Qual è lo stato di salute dell’alta borghesia? Da quel che vediamo, almeno febbricitante. E non solo per il senso di decadenza che pervade i protagonisti, ma anche per l’ottusità con cui si vorrebbero tenere separate realtà e finzione. E quanto è brava l’autrice, nel finale, a ricordarci che tutto si confonde, che la prima dimensione si perde nell’altra e viceversa e che talvolta bisogna lasciarsi invadere dalla nebbia.
I villeggianti è prima di tutto, infatti, un’autobiografia romanzata in cui madri, zie e figlie lo sono davvero anche nella vita reale, gli amici diventano fidanzati e sorelle e la famiglia, di sangue e di fatto, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, è la vera protagonista del film. La regista ha davvero perso un fratello, è stata davvero, per anni, la compagna di un sex symbol più giovane di lei (Louis Garrel) che poi si messo con una super top-model - âgée ma sempre top (Letitia Casta). Manca la brillantezza delle auto-analisi di Woody Allen, ma ci avviciniamo molto e ringraziamo sollevati.
Paolo Di Marcelli