E questo è solo l'ultimo di una serie di premi e primati che la produzione sudcoreana si è aggiudicata a partire dalla Palma d'Oro al festival di Cannes, vinta tra l'altro all'unanimità (non succedeva dal 2013). Il film ha colpito sia la critica che il pubblico con la forza di un'esplosione e ormai da mesi continua a far parlare di sé. E a ragione.
Tutta l'opera si muove sul confronto e sulla convivenza tra due famiglie di Seul: una è ricca e benestante, l'altra è povera e costretta a vivere di espedienti, arrabattandosi per mettere il cibo in tavola; una vive in una grande casa moderna in un quartiere in, l'altra vive in un seminterrato, infestato dagli insetti e da un odore penetrante, l'odore dei bassifondi. Le due famiglie si frequentano, si avvicinano, ma senza mai conoscersi o comprendersi. Un muro sembra ergersi tra di loro, un limite che non può e non deve essere oltrepassato: il limite segnato dalle classi sociali, che in Corea è estremamente rigido e sentito e che viene magistralmente evidenziato da un sapiente uso della fotografia, la quale ci mostra sempre un diaframma tra i vari membri delle due famiglie, sia esso un muro, la finestra della veranda o semplicemente una diversa luce che colpisce i vari attori sulla scena; i Park e i Kim appartengono a due mondi diversi, che non hanno niente in comune, neanche la pioggia che, pur cadendo su tutta la città, crea un paesaggio notturno poetico e quasi bucolico nei quartieri alti, mentre allaga i quartieri popolari, distruggendo il seminterrato dove i Kim abitano e trasformandosi in un eruzione di acqua putrida proveniente dalle fognature.
Durante tutto il film una domanda tormenta lo spettatore: chi è il parassita al quale si fa riferimento nel titolo? Sono i Park, che hanno una schiera di domestici e lavoranti dai quali dipendono totalmente e dei quali senza troppe remore si disfano? O sono i Kim, che grazie ad ad una serie di espedienti poco puliti riescono tutti a farsi assumere alle dipendenze della loro ricca controparte?
In realtà il film sembra suggerirci una risposta di compromesso: nella società capitalistica moderna ognuno è parassita dell'altro e si serve di lui per sopravvivere. Anche dal punto di vista meramente morale entrambe le famiglie mostrano luci e ombre: il rapporto tra i membri della famiglia Park è ineffabile, rarefatto, a tratti artificiale, mentre i Kim sembrano più uniti e compatti tra loro, salvo poi mostrarsi anche loro crudeli con gli ex lavoranti dei Park, che hanno fatto licenziare e poi sostituito.
L'opera quindi presenta un messaggio potente e penetrante,di critica verso il classismo e l'egoismo che la società coreana e, più in generale, tutta la società capitalistica di stampo occidentale sembrano propugnare, proposto con una messinscena chiara ed evocativa, in grado di affascinare e catturare lo spettatore per tutta la durata del film. E' questa la formula vincente che ha permesso a Bong Joon-Ho e a Parasite di conquistare i cinema occidentali e fare faville in ogni concorso nel quale il film è stato candidato. Del resto, non è la prima volta che il nome del regista coreano balza all'Orecchio del grande pubblico al di fuori dell'Asia: nel 2013 stupisce tutti con Snow Piercer, film postapocalittico dinamico ed innovativo che tratta il tema della lotta di classe, mentre nel 2017 dirige per Netflix Okja, pellicola sul controverso tema dell'allevamento intensivo e del rapporto tra uomo e animali da allevamento, trattato con una nota vagamente comica ed un gusto per il grottesco che a tratti si ritrovano anche nella sua ultima pellicola.
In conclusione possiamo affermare senza timore che Parasite è uno dei film migliori del 2019 e può essere considerato la cartina di tornasole di una stagione felice per il cinema mondiale: messaggi potenti, qualità, nelle scelte visive, nella scrittura e nelle performance attoriali sono il leitmotiv di quest'ultimo anno e speriamo che lo rimangano per molto tempo.
Di Matteo Borelli.