Un risultato insperato per una pellicola difficile da digerire, rimasta in cantiere per 20 anni: una sceneggiatura rifiutata ben 137 volte per l'intensità e la scomodità, anche, del soggetto trattato, diversi tentativi di realizzazione mai andati in porto, poi la giusta combinazione di regia, cast artistico e tecnico, produzione. Premesse scoraggianti che non hanno tuttavia costituito un ostacolo alla riuscita dell’impresa, anzi non hanno fatto che rafforzare l’energia e l’impegno profusi nella lavorazione.
L’essenzialità della produzione ( riprese realizzatei in soli 25 giorni, con un badget limitato e strumentazione minimale) e lo spirito combattivo che ne è derivato sembrano trovare un parallelo proprio nella narrazione stessa, nel corpo provato del protagonista, anch'esso consumato fino all’osso, ma racchiudente ancora tenacia e ostinazione. Un fisico prosciugato, ridotto all'essenza, al puro slancio vitale, attraverso il quale, anche visivamente, passa la denuncia del film.
La storia è ispirata ad una vicenda realmente accaduta. Ron Woodroof (M. McConaughey), un elettricista-cowboy texano dedito ad una vita di sregolatezze, nel 1985 scopre di aver contratto l’HIV e, deciso a non arrendersi alla sentenza di morte annunciatagli (la prognosi dei medici è di soli 30 giorni di vita), imbraccia una lotta alla ricerca di cure che possano garantirgli una prospettiva migliore, diversa da quella cui sembrano condannarlo le terapie offerte dal sistema ospedaliero, poco efficaci e talvolta dannose. Avvierà un contrabbando di medicinali alternativi, speculando contro gli interessi delle case farmaceutiche. Spinto inizialmente da interessi economici, Woodroof diventerà poi eroe di una lotta civile assurda a dover esistere: quella del diritto alla libertà di cura.
Saprà portare avanti la sua causa circondato dal supporto di una comunità variopinta, alla quale prima guardava con diffidenza, anzi intolleranza, fatta di individui come Rayon (J. Leto), transgender tossicodipendente e sieropositiva, con cui instaurerà un rapporto tutto particolare. Proprio questo mondo si rivelerà l’unico che saprà stargli vicino, condividendone la sorte e la stessa lotta contro il tempo per vivere qualche mese, anno in più.
Ed è incontro a questa scadenza che corriamo noi spettatori insieme a Woodroof. Il tempo del racconto è infatti scandito da una sorta di timer, quello del mese di speranza di vita stimatagli.
Ma non procede alla rovescia: scorre in ordine progressivo, mentre assistiamo al lento decadimento del protagonista, che prenderà a sfidarlo. Mosso dal rifiuto della malattia, Ron si inabisserà in una spirale di alcool, droga e sesso, rischiando di raggiungere la fine prima ancora dei pronostici. Presa coscienza della sua condizione tuttavia, prenderà poi ad inseguire il tempo, non più a sfidarlo, e il conto, scavalcati i 30 giorni, proseguirà imperterrito, facendogli guadagnare altri 7 anni.
Il nuovo Woodroof saprà spogliarsi dei suoi eccessi, che da essenziali si faranno accessori, mostrandolo in veste comica e quasi sana. Rimarrà riconoscibile nei suoi vizi e nelle sue stranezze, altro da Rayon e da tutti i compagni di viaggio, eppure loro simile.
E noi assisteremo e insieme parteciperemo alle vite di questi personaggi seguendo una narrazione asciutta e onesta, che mai si piega a sentimentalismi e moralismi. Guadagneremo una prospettiva privilegiata, potremo guardare e pure guardarci, scoprendo oltre i colori e le maschere la comune sostanza: la stessa umanità, lo stesso attaccamento alla vita.
“Dare to live”, recita il sottotitolo del film. “Dare to watch”, aggiungiamo noi.
ARTICOLO CURATO DA : ELEONORA SPOSINI e GIULIA VALLONE