Il Teatro alla Scala non è solo il posto dove è nata la grande opera italiana, ma è anche uno dei principali simboli della città e un’esperienza unica da provare. Le emozioni assorbite nel corso degli anni dalle tende di velluto, dal legno del palcoscenico, dalle poltrone in platea, le anime stesse dei grandi artisti che ci hanno lavorato, sono vive ancora oggi e riemergono ogni sera, nel momento stesso in cui le luci si abbassano, il pubblico si zittisce e lo spettacolo ha inizio.
Lunedi 26 settembre mi sono recata alla Scala per l’ultima rappresentazione in programma di “Die Zauberflöte” (Il Flauto Magico), opera tedesca di due atti scritta da Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Emanuel Schikaneder, che fu anche il primo a interpretare uno dei ruoli principali: Papageno.
Gli interpreti sono tutti allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala, che hanno dimostrato, chi più e chi meno, una solida tecnica vocale e un’interessante capacità di recitazione.
L’ingresso al teatro conserva sempre una sua ritualità: gli spettatori della platea e della galleria vengono invitati dalle maschere a depositare i soprabiti al guardaroba, posto al di sotto del livello del teatro; coloro che invece hanno un palco, come nel mio caso, vengono accompagnati da una maschera munita di una chiave d’oro per aprire la piccola porticina lignea. Ci sono infine i loggionisti, i veri appassionati di musica, che assistono in piedi dall’ultimo piano, cogliendo ogni minima sfumatura del canto: le critiche e i fischi dei loggionisti della Scala sono ritenuti, ancora oggi, la vera prova del fuoco nella carriera di un cantante lirico. Figura storica del teatro è appunto la maschera, che porta negli abiti il peso e l' autorevolezza dell'istituzione: frac con code e alamari per gli uomini, tailleur con giacca alla coreana per le donne, realizzati su misura dalla storica sartoria Friazzoli, guanti bianchi e il medaglione con l'effige della teatro. Durante l’intervallo, gran parte del pubblico usa riversarsi nel foyer, mentre chi frequenta spesso il teatro, e lo conosce bene, va al terzo piano, dove si trova il “Ridotto Toscanini”, una sala dedicata al celebre direttore d’orchestra che permette di accedere alla terrazza frontale del teatro.
Il Flauto Magico è una di quelle opere sospese in un tempo indefinito e sempre attualizzabile perché mette in scena tre archetipi narrativi intramontabili: un eroe, un viaggio formativo e un amore giovanile. E’ la storia di un principe che si ritrova a dover salvare una principessa, ma questa impresa lo porterà a capire come il bene e il male siano concetti tutt’altro che definitivi: i ruoli di buono e cattivo, tra la Regina della Notte e Sarastro, si invertono durante il primo atto, e il principe si ritroverà in un percorso di iniziazione per accedere ai misteri di Iside e Osiride, riti che ovviamente riportano alla massoneria, di cui Mozart e Schikaneder erano membri. Il principe Tamino viene però accompagnato nel viaggio da un giovane uccellatore, Papageno, che è l’emblema della persona semplice, un po’ hippie, che si aspetta dalla vita solo di non patire la fame, di trovare presto una compagna e di essere felice.
Quest’opera venne concepita non per un pubblico nobile, ma per un teatro popolare, e le indicazioni lasciate nel libretto rendono tutta l’ambientazione volutamente grottesca e buffa. Per esempio all’inizio dell’opera, Tamino, che dovrebbe essere un principe prode e audace, vede un serpente nella foresta, che appare volutamente fasullo e innocuo, quasi simile a un giocattolo, e sviene: a ucciderlo saranno tre dame, serve della Regina della Notte, con un semplice colpo di lancia; non sarà poi lui a salvare la principessa Pamina, ma Papageno. Oltre alle simbologie massoniche, alle chiavi di lettura morali secondo cui la luce della verità è capace di sconfiggere l’oscurità della menzogna, c’è anche un confronto critico tra le pomposità e i “propositi nobili” dell’aristocrazia e lo spirito pratico del popolo, tema piuttosto caldo in quegli anni, in cui in Francia era già esplosa la Rivoluzione.
di Giulia Caputo