Extra

Vestire gli ignudi: un Pirandello rincorso

Lunedì, 18 Dicembre 2017 14:11

Con una magnifica e tutt’ora insuperata idea critica, Giovanni Macchia rassomigliò il teatro di Luigi Pirandello a una stanza della tortura nella quale i personaggi vengono rinchiusi e, sotto la pressione d’uno stringente interrogatorio, pian piano smettono i panni della finzione e confessano ciò che realmente sono – o si presume siano.

Non solo la poetica della maschera, dei ruoli a forza attribuiti alle persone dalla società: ma la bramosia di voler giungere al cuore delle cose attraverso l’artificio della finzione per eccellenza: il teatro. Sul palcoscenico si vedranno i fatti. Ma quali: gli autentici o quelli che si pensa siano veri? Di questo dilemma, per quanto si cerchi di trovarne la soluzione e venirne a capo, non si riuscirà mai a districarne le maglie. È ciò che rende grande il teatro di Pirandello, fra le maggiori espressioni drammaturgiche del Novecento italiano ed europeo.

In Vestire gli ignudi (in scena al teatro Arcobaleno di Roma per la regia di Giuseppe Argirò) questa poetica della ricerca della verità è messa in mostra. In una modesta e ordinaria stanza affittata ad uno scrittore, si consuma la “commedia d’una bugia scoperta”, quella di Ersilia Drei: donna che mai ha avuto la forza di essere qualcosa, e che tutti hanno depredato di ciò a cui l’essere umano più aspira: una personalità e una dignità. Ella è raggirata e delusa da tutti. È corteggiata per mero e banale dongiovannismo e non arriverà mai a conoscere la verità dell’amore. Unico riscatto che crede di dare alla sua disgraziata vita: uccidersi per morire indossando un dignitoso abitino. Gioia miserella, di cui Ersilia verrà egualmente privata.


Pirandello orchestra questo dramma attraverso dialoghi serrati e situazioni che pian piano divengono più soffocanti rendendo opprimente l’atmosfera. Intorno ad Ersilia si avviluppa un grumo di ipocrisie: dello scrittore Ludovico Nota che vede in lei un personaggio da utilizzare per un suo romanzo; del tenente Laspiga che forse realizza di amarla; del console Grotti che tenta di motivare la violenza carnale fattale subire con patetiche giustificazioni.
Tutto ciò nella regia di Argirò si percepisce pochissimo. I personaggi non vengono messi alle strette e, lasciati liberi di girovagare, sono rincorsi dagli attori che a fatica li catturano facendoli propri.


Si accenna, nello spettacolo, a qualche “pirandellismo” ma senza esagerare: come – ad esempio – la recitazione della didascalia iniziale per contestualizzare la commedia, e gli attori che rendono palcoscenico la platea mostrando così, del teatro, la sua convenzionalità.
Questo Vestire gli ignudi non si può dire sia stato un brutto spettacolo, nonostante i limiti di cui si è poc’anzi detto. Sarebbero bastati più carattere e un pizzico di spregiudicata crudeltà nel trattare la vicenda e i personaggi, per conferire alla commedia quel tono spietato ma arioso del Pirandello migliore e che tutto si ritrova nelle parole di Cotrone de I giganti della montagna: “Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze”.


Pierluigi Pietricola