La scomparsa prematura di Enrico non è proprio una sorpresa per chi era più vicino al musicista, che da qualche tempo non stava bene. È stata comunque una doccia fredda che ha lasciato tutti di sgomento. Non solo se ne va un ragazzo di 37 anni che della vita aveva ancora molto da vedere (e raccontare) ma anche un artista che, insieme a una sparuta schiera di colleghi, stava cercando di rivoluzionare la musica italiana.
L’obiettivo era ed è ottenere una rivoluzione culturale passando per una rivoluzione musicale, mischiando narrazioni in prosa e flussi di coscienza con basi suggestive e accoglienti. Il messaggio non è il fine, ma il mezzo: un invito a riflettere sulla società nelle sue forme macroscopiche attraverso lo stream più o meno sconnesso ed etereo di pensieri legati a situazioni quotidiane del passato. Il vero fine è la spinta a pensare la società come un aggregato di tante piccole pratiche, concezioni e stereotipi che la compongono, senza il bisogno di veicolare la propria visione in maniera definita. Tutti concetti spiegati nell'intervista di RLT a Max Collini
Il messaggio è un testo aperto, pluralistico. È suscettibile a interpretazioni ma è immune da confutazioni, per un unico motivo: perché non esiste. Le informazioni vengono messe a disposizione in una forma disgiunta, pura, indissolubilmente connessa con la situazione che le ha generate. Sta all’ascoltatore ricostruire il senso di ciò che ha assorbito, in un meccanismo di produzione-riproduzione di senso che stimola un ascolto attivo della musica, che genera apprendimento più che intrattenimento.
Il messaggio, però, deve essere anche fruibile, ed è qui che entrava in gioco Enrico. La sua musica, più che dell’ideologismo politico di sinistra degli anni 70, è figlia della New Wave brittanica degli anni ’80 sponda Depeche Mode, delle atmosfere cupe ed eterogenee di Joy DIvision e New Order, dello Shoegaze, quella parola che molti traducono con Indie-Rock, ma che in realtà si riferisce al fatto che il musicista si guarda continuamente le scarpe (ovvero è sempre impegnato con le pedaliere degli effetti sonori). La sua missione era invitare all’ascolto, dare una semi-concretezza al groviglio di racconti, pensieri e suggestioni snocciolate dalla voce di Max Collini.
Questa deriva musicale internazionale (soprattutto anglosassone) unita alla particolarità dei testi, tutti rigorosamente in italiano, rappresenta la rivoluzione di cui parlo. Rappresenta la trasformazione di una realtà ristretta, la canzone italiana, in una realtà ecumenica, dal più ampio respiro, diretta a un’audience più ampia e giovane. Rappresenta il mischiare local e global per ottenere qualcosa di nuovo, un prodotto glocal, che riesce a trasmettere tradizione e cultura in una forma moderna, apprezzabile, non stantia, perlomeno.
Insieme ad Enrico se ne va anche un pezzo di questa rivoluzione, della quale da artefice si trasformerà in simbolo. Il suo lavoro e il suo approccio sono da considerarsi un esempio per i tempi a venire, un esempio che già in molti hanno cominciato a seguire e molti altri si spera cominceranno, perché la musica italiana non ritornerà attuale venendo semplicemente resuscitata in un’ottica vintage. C’è bisogno di gente aperta, come Enrico, che la rivoluzioni e la adatti ai tempi in cui viviamo: rapidi, confusi e in continua evoluzione. Altri, come lui, hanno intrapreso questo percorso già da prima che gli Offlaga si affacciassero sulla scena musicale, e come tutti speriamo, continueranno a farlo.
Enrico non sarò più sul palco e in studio, ma nella testa di tutti quelli che condividono lo stesso sogno rivoluzionario.