Il gruppo lo conosco ma non li ho mai sentiti live, certo ho visto qualcosa da youtube e letto qualche recensione ma tutto mi fa sperare di trovare una piccola sorpresa.
Le mie aspettative non vengono smentite: la location è pazzesca, una piccola sala, con un pavimento in discesa (tipico delle vecchie sale cinematografiche e/o teatrali) ma di tutto questo non c’è rimasto più nulla, né schermi, né sipari, né poltrone. Un solo piccolo palco, sistemati in ordine quasi maniacale strumenti musicali.
Mi sistemo al centro, entrano i Public Service Broadcasting, mi giro verso un tipo per chiedere l’ora: sono le 22.35 e penso: inglesi!!!
Si presentano sul palco in tre. Seri, freddi, distaccati. Sembrano usciti da qualche film anni 20 e si incastrano perfettamente in quello spazio.
La prima cosa che noto è l’acustica: straordinariamente perfetta, i bassi non distorcono (finalmente) e subito vengo attratta dalla loro meticolosità: non si presentano, hanno solo una voce campione che parla sotto ogni brano e che presenta, ringrazia il pubblico di Roma ed è incredibile, penso, a come si possa comunicare attraverso mille modi diversi nel 2015. Non hanno alcun microfono, si limitano ad accennare sorrisi e a fare l’ok alzando il pollice.
Si tratta di pezzi di elettronica, di post-rock, di fusion, il ritmo prende ma non riesco a muovermi, vengo completamente assorbita dalle immagini che passano dietro di loro, ho come l’impressione di stare a guardare un film al cinema dove la colonna sonora è prepotente perché è live e io credo che questo sia il loro scopo, il loro fine ultimo e a parte qualche stronzo che balla come se fosse ad Ibiza il senso di questa serata viene colto dai più che rimangono attenti a seguire lo spettacolo. Non sbagliano una nota, sembra di stare ad assistere all’interno di una sala registrazione la nascita di un disco, dove ogni minuto che passa costa dollari e allora tutto deve essere eseguito correttamente per non sbagliare e ricominciare. Tutto deve arrivare ma tutto allo stesso tempo deve essere contenuto.
Si parla tanto di musica, si parla tanto del fatto che non avremo più gruppi che faranno la storia della musica perché tutto è stato già provato, sperimentato, sentito. No, maledizione, non è assolutamente vero, questi tre ragazzi sanno suonare, portano sul palco i classici strumenti: vedo una batteria, bassi, chitarre elettriche, vedo perfino un banjo e una tromba, sanno suonare eccome ma fortunatamente utilizzano tutta la tecnologia che gli è stata concessa per arrivare oltre. Campionamenti, mac, synt, suoni sì registrati ma trovati, cercati, studiati per farli incastrare nel tutto. Eccola qui la musica dei “nostri tempi”, mi guardo intorno e noto almeno tre generazioni di pubblico, giovani, il signore di mezza età ma soprattutto almeno una decina di bambini e penso: che fortuna che hanno avuto ad assistere a tutto ciò, cresceranno con una mente dilatata ed elastica, senza limiti. Chissà se per loro questo gruppo non farà la storia della musica perché poi è tutta una questione di punti di vista e di epoche.
Non si fanno attendere troppo per il bis, richiesto immediatamente dal pubblico appena scendono dal palco. La voce campione annuncia che questa sarà the last Song. Un finale che inizia come se partissero i titoli di coda di questo film durato un’ora o poco più ma che improvvisamente cresce e ti fa restare ad assistere a questo tripudio musicale assurdo che varia dal post-rock alla new wave, sento i Cure, i Joy Division. Poi mi guardo intorno, realizzo che sto nel 2015, guardo il palco e mi rendo conto che sono i Public Service Broadcasting : eccola qui la musica dei nostri tempi.
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