Da poco avete ristampato il vostro album d’esordio ‘Muscoli e Dei’, che rapporto avete con questo album?Lo sentite ancora vicino a voi?
Muscoli e Dei è il nostro primogenito e non possiamo non amarlo, con lui sono nati i Marta sui Tubi in un momento in cui non credevamo assolutamente di iniziare a fare musica tantomeno che saremmo diventati musicisti professionisti. Dodici anni fa, in quattro mesi di lavoro, tra una bottiglia e un'altra, ha preso forma un progetto, in maniera giocosa e spontanea, che non immaginavamo ci portasse fin qui e che si è rivelato essere la nostra professione. Lo sentiamo nostro e lo suoniamo con piacere, nel tour in corso ne proponiamo 5 brani, volentieri.
Non so chi abbia fatto i conti con “Di Vino”, ma non avete preso neanche un numero della sottoscritta, perché una canzone cosi facile e popolare?
Non ci siamo mai messi a scrivere con l’idea di scrivere una canzone facile o difficile, tutte le nostre canzoni nascono così, da sole, non sabbiamo spiegarlo bene neanche noi cosa succeda. “Di vino ” ha preso forma da un’improvvisazione di batteria con un tempo dritto, strimpellando un studio, trovata la melodia abbiamo accennato qualcosa con la voce. Risentendola ci è piaciuta e abbiamo provato a descrivere cos’è ciascuno di noi in numeri, affidandoci prima a statistiche già fatte e poi arrotondando i numeri per seguire la metrica.
In Vecchi difetti cantate “guardami cambiare forma dopo forma ancora e ancora” ed esprimete lo stesso concetto in Cristiana, cos’è per voi il cambiamento?
Abbiamo sempre apprezzato band che hanno prodotto dischi molto diversi tra loro. Cambiare significa avere il coraggio di mettersi in gioco, e rinunciare alle sicurezze. Per noi è più importante assecondare se stessi, sperimentare, conoscersi, misurarsi. Noi dalla nostra non abbiamo mai assecondato un genere musicale, anzi ci piace mischiare le carte per cercare di creare qualcosa di diverso: crediamo sia importante che parlino le canzoni, da sole, al di là dell’arrangiamento musicale con cui la proponiamo.
Quanto pensate abbia influito la residenza d’adozione sulla vostra carriera? Se foste rimasti a marsala sareste arrivati comunque?
Tutto è iniziato a Bologna ma la band attualmente gravita attorno a Milano, dove viviamo e abbiamo il nostro quartier generale. Se fossimo rimasti a Marsala non sarebbe accaduto nulla, non saremmo qui oggi. Bologna è stato il punto di partenza, di tutto.
Nella vostra carriera avete avuto la fortuna di lavorare con i padri della musica italiana, tra cui Lucio Dalla. Com’è stato il confronto lavorativo con lui?
Mi hanno fatto tantissime volte questa domanda e nonostante tutto, fatico ancora a rispondere adeguatamente. Più passa il tempo più mi accorgo quanto è stato straordinario. Sul momento era facile, non me ne sono quasi reso conto, Lucio ti metteva profondamente a tuo agio senza far sentire la distanza che può esserci tra uno che la musica italiana l’ha creata e una band che ha iniziato a suonare ad poco e di strada ne ha da fare. Era una persona piena d’energia ma anche molto umile, quando abbiamo lavorato insieme in studio ci disse “insegnatemi a cantare questa canzone”, credo che questa frase rende appieno il tipo di persona che era. Aveva voglia di suonare e amava mettersi in gioco, confrontarsi con un background diverso come il nostro, ma interessante e stimolante. Nessuno cantava come lui e nessuno l’ha più fatto: lui ha iniziato a usare la voce come strumento, creando brani con testi profondi e musiche ricercate. Nel suo lavoro non c’è la marzialità di De Andrè o l’attenzione spasmodica alla metrica come quella di Gaber, c’è l’anarchia. Lavorare con lui è stato meraviglioso, e avremmo fatto altro insieme, se la natura ce ne avesse lasciato il tempo. Il destino, purtroppo è stato più forte delle nostre reciproche volontà.
Tecnicamente siete molto bravi. Vi sentite arrivati, da questo punto di vista?
Suoniamo da molto tempo e se fossimo ancora incerti sugli strumenti sarebbe un bel problema (ride, ndr). Ogni volta che facciamo un disco, è come se facessimo il primo disco. La tecnica in sé è una cazzata, è masturbazione, è una logica perversa che ti porta a farti una sega ogni volta che suoni, non serve a nulla. E’ una cosa che coltivi per essere più sicuro di te stesso, ma alla fine se hai solo tecnica e non sei comunicativo non serve a nulla. I Velvet Underground non sapevano suonare e nel ’66 hanno fatto un capolavoro, i Sex Pistols non avevano tecnica ma erano comunicativi, per questo tra la tecnica e il feeling scegliamo sempre il feeling.
Sanremo 2013: un’esperienza che rifareste?
Abbiamo partecipato a Sanremo nel 2013 perché c’erano determinate condizioni, sotto invito dal direttore musicale, Mauro Pagani. Lui teneva molto alla nostra partecipazione e non abbiamo dovuto seguire l’iter comune. Ci siamo sentiti coccolati, importanti, voluti. Non abbiamo mai provato a partecipare a San Remo proponendo i nostri pezzi. Ma quella del 2013 fu un’edizione singolare, era l’edizione di Fazio, in cui si tentò di svecchiare il festival. A noi piacque molto la cornice, dove i partecipanti più vecchi erano Elio e le storie tese: abbiamo partecipato sposando una causa in cui credevamo per primi noi.
Da Sanremo a Nessun Dorma, perché?
Se suonassimo solo a Sanremo, saliremmo sul palco una volta ogni 10 anni (ride, ndr). Un festival come questo è perfetto per noi perché ha una line up esattamente in linea con la nostra proposta, facciamo tutti parte di quell’immaginario rock italiano. Vogliamo continuare a fare tutto quello che ci piace fare: questo ci piace.
Avete ancora fiducia nelle realtà provinciali e genuine? Credete possano produrre prodotti musicali di qualità?
Assolutamente si, e ce n’è sempre più bisogno. Ieri abbiamo suonato a Vetralla, in provincia di Viterbo, nella piazzetta del centro storico all’interno di un borgo medioevale, i ragazzi che hanno organizzato l’evento ci hanno accolto con un affetto e un entusiasmo unico. Noi lì con loro ci siamo divertiti come non mai. E’ sbagliato pensare che il circuito rock sia formato da quei dieci locali italiani, a noi piace confrontarci, girare, fare un po’ i musicisti a domicilio.
Che effetto vi farebbe suonare davanti a un pubblico che non vi conosce?
Lo stesso che ci ha fatto a Sanremo(ride, ndr). Abbiamo iniziato così in realtà, agli esordi non ci conosceva nessuno, suonavamo in piccoli pub di Bologna: il pubblico ce lo siamo costruito ed è stato stimolante, una palestra fondamentale. E’ facile suonare davanti ad un pubblico in delirio che accoglie ogni tuo gesto, quando suoni davanti a qualcuno che non ti conosce devi essere bravo tu, li devi conquistare.
Avete iniziato a suonare oltre 10 anni fa quando le piattaforme digitali ancora non esistevano. Cosa pensate di questa nuova distribuzione?
Questa domanda mi riguarda sia come artista che come titolare di Musicraiser (piattaforma di crowdfunding, ndr): noi non crediamo ci possa essere una distribuzione uguale per tutti. Il 99% dei dischi che oggi escono in Italia vengono lanciati nella stessa maniera: comunicato stampa, Spotify e iTunes. Si vende un prodotto di bassissimo costo e di bassissima qualità: un contenuto digitale smaterializzato e impersonale, o un pezzo di plastica che chiamano cd. Oggi porti a casa un album con 10€ o peggio lo ascolti su spotify, facendo guadagnare all’autore una cifra prossima allo zero. Anche il fan si stufa presto, perché non ha più un oggetto bello, di nicchia, esclusivo, ma un prodotto massificato a basso costo. Non c’è più uno studio meticoloso sull’uscita e la promozione della casa discografica, ci si focalizza quasi totalmente sulla registrazione tralasciando questo secondo aspetto, di rilievo per i musicisti. Se infatti si rende immediatamente disponibile un contenuto su Spotify diventa impossibile sostenersi economicamente come musicisti.
Come pensate cambierà la scena musicale nella prossima decade anche a fronte di una diffusione così democratica?
La musica si sta liberando dal proprio supporto rimanendo aria. Nel 1915 la musica non la compravi, poco dopo uscivano i primi album 78 giri che erano un prodotto per pochissimi. La musica non l’ascoltavi nel quotidiano, radio non ce n’erano, la musica a quei tempi, era fatta di piazze che ospitavano bande, o teatri per i più abbienti. Eri fortunato se conoscevi qualcuno che suonava o se possedevi uno strumento da suonare. Non c’è mai stato un momento storico in cui la musica sia stata così disponibile e a buon mercato come quello odierno che prescinde il supporto in se, lasciando pensare, soprattutto alle nuove generazioni che il prodotto musicale sia qualcosa che non vada pagato. Per noi la musica è opera d’ingegno e considerata tale va pagata, in altre parole credo che la musica nutri l’anima, importante da nutrire quanto il corpo, e se paghi per mangiare è necessario che si paghi anche per della buona musica. Comprare un cd, investire un piccola somma, implica poi ascoltarlo ripetutamente, capirlo, apprezzarlo, ricercare e leggerne i testi, con spotify se passa una traccia che non ti piace, la cambi, senza dargli una seconda possibilità: e’ uno strumento superficiale. Molti dei miei album preferiti sono stai album che al primo ascolto non mi son piaciuti ma che ho apprezzato approfondendoli col tempo, capendo che c’era un mondo di sonorità sconosciute. Da qui ne deriva un’apertura mentale che è anche declinazione di una propria personalità: è giusto insegnare ai giovani ad avere pazienza di scoprire cose che risultano ostiche al primo approccio, strumenti come lo streaming non lo consentono, lasciando passare il messaggio che non è necessario possedere la musica, farla propria, idea lontanissima da noi.