Se c’è un luogo che può simboleggiare allo stesso tempo decadenza e rinascita, oblio e riscoperta, è proprio l’Ex Caserma in via Guido Reni 7. Già fabbrica di armi, quest’area di 70.000 metri quadri si trasformerà nel corso dei prossimi anni nella Città della Scienza, nell’ambito di un importante progetto di riqualificazione urbana. Paradigma di una città sotto tanti aspetti in ginocchio e priva di prospettiva, le strutture in acciaio e l’architettura industriale di questo complesso di edifici costituiscono lo spunto dal quale ripartire alla volta di un obiettivo di innovazione, di rivalutazione e di progettualità. Le mani sulla città, sì, ma mani creative, sudate e ispirate, non quelle unte e inamidate della speculazione e dello sfruttamento. In attesa di veder risorgere questo quartiere nel nome della scienza, ce lo godiamo nel nome della musica e dell’arte. E in alcune delle installazioni la scienza ha più di una voce in capitolo, come vedremo.
Lo Spring Attitude comincia a pensare in grande. Dalle prime edizioni dal respiro artigianale e d-i-y, siamo arrivati a una manifestazione citata e consigliata anche in ambito internazionale come una delle mete più gettonate per chi è alla ricerca tanto di next big thing così come delle realtà più solide e affermate della scena elettronica. Un pensiero che si espande anche spazialmente. Ben quattro le location in cui lo Spring è protagonista: oltre all’ex caserma, anche il MAXXI, lo Spazio Novecento e il Sisley Store. Uno sviluppo proteiforme, tentacolare per un evento dalle alte ambizioni. D’altronde, quando si ospitano nomi come Four Tet, Jon Hopkins o George Fitzgerald la posta in gioco diventa febbrile. Elettronica, dicevamo. Va però sottolineato come questo tipo di estetica cerchi di estendersi oltre ambiti come la club culture e l’elettronica pura, ad abbracciare ibridazioni con generi altri per cercare l’altro, anche con una certo senso del rischio, nell’ottica di una visione sincretistica dell’arte, specialmente musicale. E a far fede di questo vi sono alcuni dei live in programma questa sera, con band e artisti che trascendono i confini labili dell’etichetta.
Dopo il warm up al MAXXI di giovedì sera, si entra nel vivo della manifestazione con alcune delle apparizioni più attese di questa edizione. A rompere il ghiaccio stasera ci pensa Jessy Lanza, di stanza nel Main Stage. Ancora pochi i presenti che si aggirano tra gli spazi dell’ex caserma o che si adagiano sulle sdraio o sui bancali disseminati lungo tutto il percorso; d’altro canto, sono solo le 22, che da queste parti vuol dire ancora pieno giorno. Ciononostante, l’artista canadese non si risparmia e ci regala un live valido e intrigante, di fronte a una platea non numerosa ma coinvolta. Un duo femminile sul palco, con la Lanza che si cimenta in voce e synth, ben coadiuvata dalle ritmiche sintetiche di Tori Tizzard. L’album fresco di pubblicazione ‘Oh No’ è chiaramente in primo piano stasera, con l’esecuzione del singolo ‘It Means I Love You’ a raccogliere i migliori tributi: una ritmica quasi techno ma con un sottofondo minimalista, che strizza un po’ l’occhio ai Disclosure e a una Gazelle Twin, solo molto più solare e rassicurante. Techno dai toni primaverili. A rimarcare la bontà di una formula mai sazia di nuove soluzioni ci pensa la traccia omonima dell’album, che mescola con disinvoltura sonorità di tastiere e ritmiche à la Tortoise con una soul music dello spazio che non dispiacerebbe a James Blake. Nume tutelare per la Lanza, però, sembra essere Natasha Khan aka Bat For Lashes, la cui presenza, benché discreta, è presente a più riprese nella performance della canadese. Un biglietto da visita coi fiocchi.
Un festival itinerante senza essere dispersivo. A colmare in parte il divario, solitamente enorme, che separa quelli italiani dai festival europei interviene il piacevole accidente di dover (e poter) cambiare spazi per cambiare sonorità, ma senza comunque dover fare chilometri. Quattro sono infatti gli spazi teatro delle esibizioni di stasera: Main Stage, Magazzini 1 e 3 e Rizla Stage. Ed è in quest’ultimo che ci spostiamo per assistere a parte del live dei Lust For Youth, quando sono da poco passate le 22.15. Il trio danese può essere un buon esempio della ricerca (da parte degli organizzatori dello Spring) tesa a includere anche realtà non completamente assimilabili alla scena elettronica di cui parlavamo prima. E in effetti quello che ci si para dinnanzi è un familiare trio sintetico che, tanto esteticamente quanto a livello sonoro, non disdegna l’introduzione di elementi alieni. Basta guardare l’aspetto e l’atteggiamento del cantante: berretto da baseball, giacchetto della tuta e inclinazione a 45° sul microfono. Sembra una via di mezzo tra un Les Claypool anni ’90 e il Liam Gallagher dei bei tempi. Estetica a parte, la proposta del gruppo si assesta su una dark-wave elettronica sulla quale aleggia evidente la grande ombra dei Cure e, in misura minore, di Ultravox e Joy Division. Per incalliti nostalgici.
La musica non è tutto. I magazzini 1 e 3 ospitano infatti manifestazioni che, seppur utilizzando il suono come mezzo espressivo principale, lo saldano con elementi visivi e cinetici, generando installazioni e sperimentalismi che, come spesso accade, hanno il pregio di lasciare quantomeno spiazzati.
Il magazzino 1 ospita per tutta la notte il collettivo Metapherein, che presenta il progetto ‘Echoes of the Crowd’. Quello che vediamo è una base costituita da una serie di pannelli di legno, al di sopra della quale uno schermo proietta i movimenti delle persone sulla superficie, attraverso immagini sfuggenti ed ectoplasmiche. A fare da sottofondo al tutto è una colonna sonora glitch e rumorista. La spiegazione di una delle performer è preziosa e necessaria: al di sotto della base in legno sono presenti dei conduttori che trasmettono le vibrazioni a delle consolle, responsabili della generazione dei suoni. Questi vengono sovrapposti in tempo reale alla base sonora già presente, ma non è tutto: quegli stessi suoni vengono poi rielaborati e inseriti all’interno della composizione in maniera estemporanea e imprevedibile. Un bell’esperimento di commistione tra movimento, video e suono: oltretutto, è buffo dall’esterno osservare la gente che improvvisa improbabili passi di danza sul parquet per lasciare una traccia.
Nel magazzino 3 si alternano invece due installazioni live interattive. Dalle 21.30 alle 23.15, Francesco Giannico e gli studenti della R.U.F.A. (Rome University of Fine Arts) mettono in scena un curioso esperimento. Nel magazzino c’è un’ellisse delimitata da paletti sormontati da piastre che sembrano cellulari, ma che si rivelano poi essere emittenti luminose. All’interno di questo circolo, girovagano in maniera casuale i partecipanti che indossano un paio di cuffie di un blu fosforescente, fornite all’ingresso. Anche qui, a sovrastare la scena c’è un grande schermo che proietta bordate e fasci di luce alternati ad ambienti che ricordano templi buddisti. A quanto sembra di capire, il suono trasmesso attraverso le cuffie viene modificato in base al movimento di quanti entrano e si muovono all’interno di questo cerchio magico, e così avviene per la parte video.
A seguire, sempre qui, ‘Punto Zero’ del collettivo Otolab accende i suddetti “cellulari”, che generano dei bagliori a corrente alternata, simili a quelli delle luci strobo, che riempiono lo spazio con coriandoli di luce. La musica c’è anche qui (che, per inciso, a volte mette a dura prova la capacità di sopportazione dei timpani, a causa delle alte frequenze: ascoltatevi ‘Lobotomia’ degli Area per farvi un’idea. Ma non stiamo a quei livelli, per fortuna), ma è diffusa esternamente senza l’ausilio di cuffie. Un’esperienza psichedelica nel puro senso del termine, sicuramente tra le più suggestive di questa sera.
Alle 23.15 ci spostiamo di nuovo nel Main Stage per l’esibizione di Rone. Erwan Castex, producer francese ma di adozione berlinese, si è fatto largo dapprima nel silenzio e nell’indifferenza, per poi stupire tutti con il disco ‘Creatures’ del 2015. Lanciato dal collega Agoria tramite l’etichetta Infine, i suoi sforzi sono stati premiati con collaborazioni di rilievo, con artisti come Com Truise (uniti da una certa affinità stilistica), The National e persino Antipop Consortium (con i quali ha condiviso il singolo ‘Let’s Go’). A scandire la parabola del trentaseienne di Boulogne-Billancourt è stata, però, la longa manus dei Boards of Canada, la cui influenza non può essere negata. E questo live lo dimostra: Rone domina la scena con sapienza e mestiere, e con un malcelato trasporto (si sbraccia e si agita in maniera quasi caricaturale sulla consolle), regalando però a tutti i presenti, ormai una moltitudine, un live di fascino e potenza e senza sbavature.
La sorpresa di questa sera risponde al nome di Dorian Concept, ed è di scena sul Rizla Stage a partire dalle 23.30. Oliver Johnson costruisce architetture ritmiche geometriche e labirintiche, nelle quali è dolce e disorientante perdersi, tanti sono le suggestioni e i rimandi. Ma la bravura di questo provetto austriaco è quella di saper pescare qua e là dai suoi mille ascolti (dal jazz, al funk, all’hip-hop à la Flying Lotus, col quale ha peraltro collaborato), miscelarli e riprodurli in una forma nuova e spiazzante. A tratti sembra sia difficile quando non impossibile seguire i suoi ritmi, ma solo a un ascolto più attento si arriva a svelare l’arcano e ad aprire questo scrigno di meraviglie sonore. Un’elettronica dall’approccio math ma anche progressiva: le sue evoluzioni sul MicroKorg fanno pensare al compianto Keith Emerson. Un caleidoscopio di influenze risorte a nuova vita: complesso e irresistibile.
A distinguere i festival che si emancipano dall’onnipresente asse angloamericano è la quota di artigianato locale. A portare alto il vessillo dello stivale ci pensa Cosmo, ossia Marco Bianchi dei Drink To Me, che segue Dorian Concept sul palco Rizla. Una presenza sorprendente, se si pensa al vissuto musicale dell’artista, di marca più cantautorale, ma che alla fine giustifica la propria presenza grazie a una performance a forte impronta ritmica e, soprattutto, grazie a un pubblico molto partecipe. Lì per lì si fa anche fatica a comprendere che stia cantando in italiano, aspetto che di per sé gioca normalmente a favore degli artisti attenti a rimarcare l’aspetto musicale. Il successo di pubblico di questa sera, per un live sicuramente divertente e quasi soffocante, data la capienza della sala. Promosso ai punti in Main Stage.
L’evento forse più atteso di questo secondo giorno di festival è probabilmente l’esibizione di Pantha Du Prince. Già visto all’opera insieme al Bell Laboratory nella splendida cornice del Primavera Sound del 2013 per ‘Elements Of Light’, Hendrik Weber presenta stanotte il progetto ‘The Triad’ e, come sempre accade nelle sue esibizioni, l’occhio vuole ben la sua parte. In tre si presentano sul palco con degli specchi montati davanti la fronte, a riflettere le luci che, dal palco, si riversano e si spandono sulla platea di un Main Stage raramente così gremito. L’effetto è straniante e suggestivo, nonché ipnotico come la sua musica. Un lungo tappeto di synth e tastiere anticipa e introduce quello che, da quel momento in poi, diventa un avvolgente e infinito mantra. Il ritmo non manca, ma non mette mai in secondo piano una trascendenza che ha sempre avuto un ruolo centrale nella parabola del tedesco. Ad alimentare l’effetto di rituale collettivo interviene la voce filtrata e irriconoscibile dello stesso Weber che, nel frattempo, ha scambiato lo specchio con una maschera che ricorda il volto di Han Solo metallizzato da Jabba. Se gli antichi Egizi fossero mai arrivati a produrre musica elettronica, avrebbe suonato molto probabilmente così. Messianico.
A chiudere in bellezza con la rappresentanza italica Clap! Clap!, nuova sensazione che sintetizza una necessità di ricerca etnologica con gli imprescindibili dogmi del basso pulsante. Cristiano Crisci, già noto col moniker surreale di Digi G’Alessio, conquista i favori di pubblico e critica con un lavoro che approfondisce e sublima la crasi tra elettronica da ballo e atmosfere esotiche, tribalismo e suggestioni etniche. Cavie di questo test noialtri del Main Stage, che accogliamo a braccia aperte una prestazione possente ed energica, con una nota di merito particolare per la parte visiva, con le luci che dialogano brillantemente con i beat impattanti. A dire il vero la formula mostra a lungo andare una certa monotonia, più che altro nelle dinamiche con le quali l’incastro di suoni world ed elettronici avviene, ma ciò è anche funzionale alla creazione di un crescendo musicale dal vivo che, in alcuni momenti, raggiunge apici esaltanti.
Una nota di demerito me la attribuisco per la colpevole dimenticanza di Alex Cremonesi (La Crus) al magazzino 3, che finisce purtroppo fuori dal radar dei numerosi eventi di questa sera in via Guido Reni.
La lunga notte intanto continua con ancora tanti decibel di musica selezionata dal nostro DJ Tennis e dall’ispanico Pional nel corso dei rispettivi dj set.
Forse non all’altezza del cast stellare di due anni prima, tuttavia lo Spring Attitude si conferma sempre più ogni anno come punto di riferimento e appuntamento imperdibile tra la miriade di proposte e festival sparsi in giro per il mondo, oltretutto ampliando il proprio bacino di utenti a un pubblico eterogeneo che trascende quello della club culture. Un evento che si aggiunge ai tanti grazie ai quali Roma, nonostante le chiusure, gli sgomberi e la miopia di talune figure istituzionali, resiste e insiste nella propria voglia di disseminare consapevolezza e cultura.
di Eugenio Zazzara
Le foto della serata
foto di Beatrice Valentini