È una giornata di sole di quelle che solo Roma sa regalare. Ieri sera ho visto Oasis: Supersonic, il documentario sulla band di Manchester diretto da Mat Whitecross. Mentre faccio colazione metto Spotify sulla riproduzione casuale degli Oasis. Penso che debba essere scritto qualcosa su quanto visto ieri, ma penso anche che non sono la persona più adatta a farlo. Prendo il telefono
- Ciao Marti, sono Daniele
- Ciao Dani, come stai?
- Bene bene, si tira avanti. Senti un po’, ti disturbo?
- No no, dimmi tutto.
- Ho visto che sei stata al cinema a vedere Supersonic, perché non scrivi una bella recensione?
- Guarda, dal momento che li amo smisuratamente sarei troppo di parte, non mi pare il caso.
Saluto, riattacco. Chiamo Edoardo.
- Edo, dimmi che hai visto il docufilm sugli Oasis.
- Certo Lello.
- Dimmi anche che ne vuoi scrivere la recensione.
- Dani, sarei obiettivamente troppo di parte, non posso farlo.
- Va bene dai, grazie comunque.
Penso che se i giornalisti fossero tutti così pieni di obiettività come lo sono i miei amici allora non ci sarebbero problemi di imparzialità, non parleremmo di giornali faziosi, neanche studieremmo deontologia. Bravi ragazzi, così si fa. Vi sentite coinvolti e preferite non parlarne. Ammirevole.
A me però della parzialità non frega niente.
Solo la personalizzazione della notizia può sconfiggere l’asetticità portata dai nuovi mezzi d’informazione.
Poi io non sono un giornalista, e quindi.
Comincio dalla fine.
Il documentario annovera tra i produttori esecutivi i due fratelli Gallagher, Noel e Liam, e me ne accorgo solo mentre applausi scroscianti accompagnano i titoli di coda del docufilm distribuito nelle sale italiane dalla Lucky Red. È come un’epifania. Mi dico “cazzo, ma allora hanno lavorato insieme”. Sembra banale, lo so, ma chi conosce la storia della band di Manchester sa anche che il rapporto conflittuale tra i due è proprio la causa dello scioglimento del “più grande gruppo rock della storia” (ipsos dixerunt). E ciò che rimane dopo la visione del docufilm è la consapevolezza che proprio questo rapporto difficile, a tratti impossibile, è anche il motivo del grande successo degli Oasis.
La storia dei fratelli Gallagher è infatti una storia di periferia e di sobborghi, una storia di violenza domestica, una storia di vizi, di egocentrismo, di mitomania sfrenata; è una storia di conflitti esteriori e interiori, una storia di rivalsa, una storia di “discese ardite e di risalite” (per dirla con le parole del mai dimenticato Lucio Battisti).
Tommy Gallagher, il padre dei tre fratelli Gallagher (Paul è il terzo, quello di cui nessuno parla mai), è il demiurgo degli Oasis, quello che li ha plasmati più o meno volutamente. È grazie alla sua brutalità che Noel si è chiuso in se stesso trovando conforto nella musica; è grazie alla sua violenza nei confronti dei fratelli maggiori che Liam ha sviluppato un rancore e una rabbia che hanno poi trovato sfogo solamente sul palco. Nel bene (poco) e nel male (molto) il carattere dei fratelli Gallagher – quello che poi li ha portati al successo – è stato forgiato dal padre.
Quel che emerge con più ferocia dall’opera di Whitecross è però l’innata audacia e l’esasperata presunzione dei Gallagher. Ciò che il regista tenta di sottolineare a più riprese è la spiegazione degli Oasis come fenomeno di massa della fine del Ventesimo secolo. Perché gli Oasis sono stati la più grande rock band di fine anni Novanta? Perché sono gli unici ad averci creduto con una convinzione incredibile e totalizzante. Video d’epoca, immagini di repertorio, interviste più o meno recenti: tutto il materiale audiovisivo utilizzato nella produzione del docufilm – con un montaggio sapiente che non lascia spazio alla noia – lascia trasparire quel carattere di fondo che ha mosso gli Oasis nei loro primi anni e che ne ha fatto la fortuna: la presunzione. La presunzione di Liam, la sua sgargiante ed eccentrica esteriorità, il suo essere consapevolmente al di sopra di tutto e tutti, ma anche la consapevolezza che, senza Noel, sarebbe stato solo un grande frontman senza testi. E poi la pesante introversione di Noel, una contemplazione costante del suo Io che, quando non trova sfogo nei testi, esplode in conflitti fisici col fratello. Ma soprattutto la consapevolezza che gli Oasis sono stati loro due, che gli altri membri del gruppo sono stati funzionali ma non necessari, che tenendo i due fratelli come costanti di un’equazione e mutando gli altri termini il risultato non sarebbe mai cambiato, e che quelle serate a Knebworth Park sarebbero davvero potute essere sette.
Oasis: Supersonic non parla della band oggi, non mostra immagini recenti dei fratelli Gallagher né tantomeno degli altri protagonisti (secondari) della storia: tutti appaiono nel docufilm sotto forma di voci (chiaramente sottotitolate nella versione italiana). La scelta stilistica è quella di far parlare la storia, la loro personale storia. Una storia fatta di tanti personaggi, dalla madre ansiosa al padre violento, dal bassista depresso al batterista cacciato. Un docufilm che, se siete fan degli Oasis, vale la pena vedere perché costituisce un pezzo importante nella storia recente di questa band, e perché lascia intendere che i due rissosi fratelli sono ancora in grado di combinare qualcosa insieme (e chissà che…). Se invece gli Oasis vi fanno schifo allora non vi comprate i cd, ma vedetevi comunque il documentario, perché – al di là della storia personale dei Gallagher – c’è la storia di due che ce l’hanno fatta, di due che, convinti delle loro potenzialità, si sono presi lo scettro di best rock band, e lo hanno fatto con caparbietà, con la giusta arroganza e con quella sana antipatia che contraddistingue chi ha voglia di sfondare.
E loro, i fratelli Gallagher, che vi piacciano o no, hanno sfondato.
Un’unica preghiera, ve lo chiedo per favore. Davvero, non c’è bisogno che al cinema cantiate anche. Grazie.
Di Daniele Rizzo