Per gli addetti ai lavori, la fine di ogni anno coincide con la cinica lotteria del totodisco, ovvero la classifica dei lavori che per un motivo o per l’altro ci hanno colpito, spiazzato, indignato, insomma che ci hanno strappato qualcosa di più di un’alzata di spalle o di uno sbadiglio. Ed eccoci intenti all’affannosa ricerca di una mezz’ora per ascoltare il disco dell’ultima settimana, la perla nascosta, il grande vecchio o l’ennesima next big thing dilaniata dall’hype. Le abbuffate compulsive, però, alla lunga cariano i timpani: le vertiginose sessioni di ascolto di dischi il cui spettro qualitativo varia nel maggior numero di casi dal discreto all’abominevole finiscono per ingenerare un bisogno quasi fisico di musica atonale. E quindi cosa c’è di meglio sotto le feste del rispolverare il vinile del babbo, del recuperare il disco regalatovi da vostro fratello che, all’epoca, vi faceva cagare ma che invece poi cacchio, è un lavorone però (tratto da una storia vera: il disco era nientepopodimeno che ‘Outside’ del meraviglioso Duca Bianco, io sia maledetto), o semplicemente del rimettere mano ai vostri CD impolverati, ormai soppiantati dal file sharing ma che reclamano attenzione e gridano al sacrilegi ogni volta che li guardate? Fortuna che la meravigliosa industria discografica ci porge la mano e ci offre tante opportunità di rivalsa per il nostro inguaribile spirito nostalgico. No, non sto parlando del cofanetto, quell’animale mitologico richiamato in vita particolarmente all’approssimarsi di ogni Natale, che ci guarda sornione nello scaffale dell’autogrill circondato dalle copertine di Fausto Papetti. Parlo della sua discendente trentenne, alternativa, colta e aperitiva: la reissue. Rigorosamente in inglese, ché vuoi mette? Non più il greatest hits, la platinum collection, il best of, ma il disco di culto ripubblicato, spesso rimasterizzato, ancor più spesso inzeppato e infarcito di outtake, b-side, booklet, alt cover e cazzi e mazzi (ah, scusate: dicks and decks). Va detto, però, che contrariamente al suo decrepito trisavolo, la reissue mantiene quantomeno intatto un suo innato fascino: come il vino, i dischi veramente belli migliorano col tempo.
Le riedizioni sono solite comparire in occasione di anniversari, ché anche oltreoceano sono appassionati di cabala, tombola e superstizione. E quest’anno di uscite storiche ne abbiamo avute almeno tre: i venticinquennali di ‘Out Of Time’ (titolo quanto mai profetico) e ‘Badmotorfinger’, e il ventennale di ‘Fuzzy Logic’. Tre titoli che coincisero con momenti topici per le rispettive band: la trasformazione definitiva dei R.E.M. da college band a fenomeno pop di massa; il grintoso ruggito che fece scoprire al mondo i Soundgarden; l’estroso esordio psichedelico di una band dal nome bizzarro, Super Furry Animals. Dischi che hanno segnato una decade alla quale chiunque sia nato tra la metà dei ’70 e degli ’80 guarda con occhi che esprimono alternativamente nostalgia, rimpianto e orgoglio, o tutti e tre insieme (“eh, ai miei tempi…quella sì che era musica). Quindi non meravigliamoci se i millennials ci prendono per il culo per i dischi degli Smashing: d’altronde, noi prendevamo per il culo i nostri genitori per i dischi dei Santana e dei Chicago, è tutto karma.
Ecco, ma cos’è tutto questo fascino indiscreto della riedizione, dell’eterno ritorno? Davvero la musica di oggi è nel migliore dei casi decente e tutti i disconi, i capolavori, sono appannaggio del passato? Che poi tocca vedere quale, di passato, ché ogni parrocchia ha il suo santo: so di gente che non ha mai messo piede nei ’90, per dire.
Allora, secondo me questa specie di virus mutante tipo influenza affonda le sue radici in una serie di atteggiamenti perfettamente umani da un lato e di elementi più o meno oggettivi dall’altro. I primi si possono dividere in alcuni gruppi:
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Ai miei tempi era un’altra cosa: atteggiamento a metà tra il superiore e il rassegnato, che si estrinseca di fronte a novellini che ti propinano il loro Chance The Rapper mentre tu ti sbracci per i NWA, che smaniano per i Tame Impala mentre tu sbavi pensando agli Spiritualized. Nel migliore dei casi, la figura la fai tu, ed è quella dell’incompreso e del giurassico, mentre mediti sull’inevitabile incomunicabilità tra generazioni ascoltando i Red House Painters
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Carbonaro/apocalittico: simile al precedente, ma tipico di combriccole di patiti ascoltatori che si chiudono insieme in casa tipo ‘Maschera della Morte Rossa’ mentre fuori infuria il grime, ad ascoltare Pearl Jam, Alice In Chains, Tool e Rage Against The Machine, il tutto in un’atmosfera a metà tra briscola e tressette, Truth or Dare e due amici, una chitarra, uno spinello (ovviamente il tutto in chiave simbolica: chi è che fa le chiuse ad ascoltare i dischi ormai, ahimè?)
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Il ròck è morto: trae dall’apocalittico la sfiducia nelle sorti della musica prossima ventura, ma il tutto è declinato in chiave più heavy: al di fuori di una cerchia di totem indiscussi che procede dai Black Sabbath passando per Iron Maiden, Metallica, Death, Slayer, Carcass e Cannibal Corpse (a seconda della corrente di gradimento, ovvio, che guai a mischiare), il resto è polvere, antimateria, Nulla che avanza
Tutte questi sottogruppi poi, in realtà, altro non sono che variazioni sul tema della nostalgia canaglia. E qui passiamo all’aspetto oggettivo, ma fino a un certo punto.
Quella storia, quella vacanza, l’Erasmus, la Uno vecchia: siamo incapaci di uscire dalla trappola tanto accogliente quanto asfissiante della reminiscenza. Il passato è sempre più bello, certe cose non le fai più, a una certa età certe esperienze non le vivi più con lo stesso spirito, blablabla. D’altronde, vuoi mettere l’università con l’ufficio? E quindi, così come in altri contesti, anche in musica le vecchie abitudini sono dure a morire e difficilmente si lascia la via vecchia per quella nuova. Che l’industria discografica, da sempre, fosse ben conscia di questa sindrome è storia nota: non è un caso, quindi, che saltino fuori festival dichiaratamente concepiti per riunire vecchie glorie, come il Desert Trip di Indo, con giovin donzelle come Neil Young, gli Stones e Bob Dylan.
Al contempo, è probabilmente valido il vecchio adagio per cui l’estrema facilità di fruizione della musica oggi è uno dei motivi del suo supposto declino: se da un lato la tecnologia ha portato alla democratizzazione estrema della composizione musicale, tanto che chiunque o quasi può produrre i propri dischi da casa senza mettere piede in uno studio di registrazione, dall’altro è anche in parte vero che un tempo le maggiori difficoltà di aspiranti rockstar a uscire dal sottobosco fungevano da filtro per l’inadeguatezza (senza dimenticare che tanti grandi gruppi del passato erano e continuano a essere semisconosciuti). Sta di fatto che adesso la musica non l’andiamo a cercare, ma quasi ci perseguita, è ovunque, anche dove non la vorresti. E magari inframmezzata da pubblicità stupide e imbarazzanti. E quel che è peggio è che a trovarti non è musica che potrebbe anche essere interessante da scoprire: è quella che ti appioppano ogni giorno ad ogni angolo della strada, nei negozi, nei supermercati, nelle pubblicità, nella metro, negli autobus. È musica strumentale (non nel senso “priva di cantato”), funzionale allo scopo per cui viene trasmessa, ossia lo stordimento da shopping compulsivo e l’abbattimento del silenzio, che fa pensare e mette in crisi. Ok, sto scivolando nella sindrome del complotto, nelle scie chimiche e nei metalli pesanti nei biscotti, lo so; ovvio che tutto questo non è il piano malefico di qualche Illuminato, dei poteri forti, della macchina del fango, ma è una tendenza che pur inconsapevolmente miete le sue vittime. La prima: la curiosità. E quindi ascoltiamo tanto, a tempo pieno ma il tempo per comprendere, per metabolizzare per bene quanto ascoltato si riduce sempre di più. Quanti dischi pescati su Spotify o su YouTube vi sono entrati davvero dentro e quanti sono invece scivolati nell’oblio nell’arco della successiva mezz’ora? Per dire, a memoria io dei gran dischi che amo li ho scoperti in modo improbabile, tipo:
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Pearl Jam – Binaural: scovato nella camera di un compagno del liceo nei del tutto teorici pomeriggi di studio. Rigorosamente masterizzato, lui sostiene che non fosse neanche al corrente di possederlo (il disco “Jumanji”)
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Soundgarden – Badmotorfinger: per qualche oscuro motivo, un frammento sonoro di ‘Nothing To Say’ dall’EP ‘Screaming Life/Fopp’ finisce in un capitolo dell’enciclopedia a DVD ‘Encarta’ (!!!). Dopo lo sconcerto, la reazione naturale è “Cazzo, fighi questi!”, e il resto è storia
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Aerosmith – Disco non pervenuto: un’audiocassetta, consumata a dovere, di un disco mai ufficialmente inciso dalla band. Meraviglioso. Rimango ancora oggi stregato dalle versioni di 10 o 20 bpm più lente di quei brani
Ecco, così un disco te lo ricordi. E quindi ci fai una reissue, logico.
E poi ancora ci sono quelle band, tante band, cui non garba l’idea che la comare secca arrivi a bussare troppo presto alla porta. E che, vuoi per il tengo famiglia, vuoi per un’incapacità innata di poter fare qualsiasi altra cosa, vuoi per l’etichetta che non vuol staccare la spina, si trascinano ad anta anni suonati per faraonici e mastodontici tour, sfruttando un’aura di leggenda che si fa sempre più flebile concerto dopo concerto, a ritmo di tequila e defibrillatore. La reunion e la reissue, e il conseguente tour celebrativo, son sempre andati a braccetto, così come le tendenze gerontocratiche della macchina musicale.
In sintesi, qui la sostanza è che le etichette c’hanno da giustificarsi a sé stesse e battere il ferro finché è caldo (oltre che la cassa); le band hanno il 730 da compilare e quindi, dai, facciamo il dvd con le interviste esclusive, il booklet tipo Pentateuco, la versione autografata, quella con la copertina cangiante e, visto che ci siamo, ci facciamo entrare pure il disco originale, ma sì, purché rimasterizzato; i fan non aspettano altro, che il disco che t’ha segnato l’adolescenza non si scorda mai e magari scappa anche che ci facciano il tour a traino. In fondo funziona così, e diciamo pure che non ci dispiace, tutto sommato.
Io dico: prendete atto della reissue, traetene spunto e andate a riascoltarvi il disco, quello originale, che tanto ce l’avete. Al limite, rubatelo al vostro amico, che tanto sarà ignaro di possederlo.
P.S.: a parte tutto, di band nuove valide ce ne sono eccome, non son tante ma nemmeno poche. Informatevi, studiate, ascoltate fino a far sciogliere il cerume: la statistica parla chiaro, se proprio non vi fidate, e prima o poi la chicca si incontra. Ripassate le nostre classifiche di ogni mese, che ogni tanto c’azzecchiamo (qui quelle dell’ultimo mese). E andate a riascoltarvi le reissue dei tre dischi spunto di questo articolo, che le basi non vanno mai perse di vista: gli originali, mi raccomando!
Eugenio Zazzara