Non avrei mai immaginato di trovarmi in una situazione del genere.
Non saper suonar bene lo strumento che tanto amo, con il quale mi sono visto su un palco davanti a cinquantamila persone che cantano insieme a me la mia canzone.
Eppure sono anni che compongo con questo stesso strumento, che lo suono.
Male, molto male, ma quello che mi serve esce, almeno per riprodurre quello che ho composto.
Quello riesco a farlo. Ma ho bisogno di provarlo tanto, senno’ nemmeno quello.
La memoria a breve termine è andata.
Riesco a ricordare cose di quando avevo sei anni, ma se oggi è giovedi’ e mi chiedi cosa ho fatto martedi’ faccio una fatica enorme a rispondere.
Non ricordo.
Non ricordo quando è stata l’ultima volta che mi sono veramente emozionato ascoltando qualcosa di mio, non ricordo se l’ho mai sentito veramente mio o se in fin dei conti l’ho composto pensando a quelle persone davanti a me, per compiacerle, per ottenere il loro consenso, per essere accettato.
In clinica mi dicono di non preoccuparmi, che presto quando il farmaco fara’ effetto non avro’ piu’ questo tipo di sensazioni, che quando non saro’ piu’, non sentiro’ piu’ in questo modo, saro’ altro, altro piu’ sereno.
Cosi’ dicono.
Ricordo la prima cassetta dei Depeche Mode che mi face ascoltare mio fratello, avevo dieci anni e iniziai a sentirmi diverso. Mi piaceva quella sensazione.
Eravamo in mansarda e “Shake the Disease" suonava alto da un vecchio registratore Technics.
Non capivo cosa dicesse il cantante ma gia’ mi sentivo lui.
Ho iniziato a cantare davanti a tutta quella gente gia’ piccolissimo ma bisognava anche studiare le storie di altri, andare a scuola, imparare delle cose che onestamente avrei evitato. Eravamo sempre gli stessi venti in quell’aula, per anni.
Non ho mai capito perche’.
Mi hanno fatto uscire due giorni fa per andare a depositare i miei nuovi brani, non sono in grado di scrivere la partitura ma in clinica hanno un buon computer e una stampante.
Ho messo il programma ed è venuto lo spartito.
Ho preso il foglio con le parole e sono arrivato al Palazzo delle Opere Protette ( lo chiamano SIAE fuori dalla clinica ).
Li ci sono dei tipi particolari che ti attendono, che ti mettono a tuo agio ma non hai mai la sensazione che siano veramente felici di vederti.
Porti altra carta, altra pena, altre illusioni e devono catalogarle, riempirne scaffali, darti un numero che alla fine della fiera è l’unica cosa che hai in mano per dire che e’ parte del tuo repertorio di quello che sei riuscito a combinare.
In clinica dicono che piu’ ne componi, e ne metti da parte, piu’ sei sollevato.
Sono arrivato a trecento, ma non mi sento ancora bene, per questo hanno iniziato a somministrarmi il farmaco.
Oggi arrivo, entro nella stanza degli scaffali e le lascio sul banco a un tipo che mi guarda e le ritira.
Ricordo invece all’epoca, che ero solito segnare per ogni opera che depositavo ventiquattro punti divisi tra autore, compositore e editore.
Ricordo che quest’ultimo se ne prendeva sempre dodici perché mi diceva che servivano per tante cose ma non mi spiegava mai bene cosa.
Che senza di quelli non si potevano fare delle cose e che doveva essere libero di poter fare cose per me.
Compresi col tempo che quei punti erano l’unica possibilità per garantire a quei brani e a me stesso un possibile riconoscimento economico per via di tutto il lavoro che avevo svolto per comporli e metterli al mondo.
L’unica possibilità che avevo per sperare di poter trasformare la mia passione, la musica, nel mio lavoro o per lo meno di aiutarla a diventarlo.
Decisi allora di pretendere il massimo impegno dalle persone a cui davo quella possibilità e lo misi su un contratto.
Misero i miei brani su un supporto e furono stampate tante copie.
Il giorno che ricevetti la mia prima copia mi sentivo esplodere dentro.
Se oggi mi chiedete cosa avevo impresso li dentro quel cofanetto di plastica farei grande fatica a rispondere, ma volevo che lo sentissero tutti.
Ancora oggi stento a capirne il perche’.
Passavano giorni, e niente accadeva.
Iniziai a chiamare, e la stessa voce che all’inizio era affabile, sorridente e accondiscendente divento’ in breve tempo distante, fredda e lapidaria.
Non vedevo il mio nome da nessuna parte, era uscito qualche articolo su giornali di poca importanza, ma in clinica mi dicevano di stare tranquillo, che ero stato bravissimo, che era il mio miglior lavoro.
“I dischi non si vendono”
“I miei?”
“No tutti”
“Il mercato ha avuto una grande flessione, non è colpa tua è solo il fatto che hai espresso troppo te stesso, forse era meglio aspettare che finissi con la terapia, non penso siamo piu’ in grado di gestire la tua situazione, oggi molto è sul web, cerca li”.
Il web? Cercare cosa? E i punti che ho dato?
Non c’è tempo, tutto corre troppo veloce, e io sono troppo stanco per chiedere qualcosa a qualcuno che non sa o puo’ rispondere. Ho iniziato a dimenticare, e, piu’ la terapia va avanti, piu’ non sono in forze per poter difendere quello che penso sia giusto difendere.
Ho fatto degli errori di valutazione.
Mi hanno detto di contare almeno fino a trenta, ma non ci sono mai riuscito e voglio tutto e lo voglio subito. Ma ho capito di aver gettato un occasione importante per seguire l’emotività.
Se non sei in grado di decidere per te chiedi una mano a chi pensi possa realmente farlo.
Non era per me all’epoca. Ero troppo acerbo, troppo poco scaltro.
Le scelte che facciamo producono conseguenze e tal volta possono essere devastanti per questo bisogna prendersi un tempo. Uno in piu’.
In fondo quei brani erano solo il frutto di quattro anni di lavoro che nelle mani di collaboratori sbagliati possono carbonizzarsi in un nanosecondo.
Oggi mi hanno detto che esiste un altro palazzo dove poter bussare per tentare di recuperare del denaro per i diritti correlati alle mie opere ( copie private, audiovisivo etc ) che si chiama IMAIE. L’ho saputo tardi. Nessuno si è preoccupato di dirmelo, tantomeno la persona a cui ho dato quei punti, il mio produttore che per me doveva distribuire al palazzo i fondi derivanti dai quegli stessi diritti correlati.
Voi non dimenticatelo mai quando vorrete pensare alla musica seriamente, il diritto di autore, il diritto come compositore e i diritti correlati.
“ Troppo spesso il mondo e’ piu’ intento a difendere i propri torti piuttosto che i propri diritti” ( lo ha detto un mio amico, Alessandro ). Voi no, non fatelo.
Ho perso tanto tempo ad occuparmi di cose dalle quali un musicista non dovrebbe essere nemmeno sfiorato, perché il musicista “musica” e deve pensare a quello.
Oggi è l’unica arma che ha per esistere in una rete dalla quale neanche un girino riesce a sfuggire.
E per starci dentro, esistere nella rete e sopravvivere ho perso il contatto con l’unica cosa che mi rendeva realmente vivo. Il mio strumento.
Suonare è l’unica possibilità che avete per combattere la vostra battaglia, insieme a difendere i vostri diritti come autori e compositori, come gruppo di lavoro.
E’ l’unica possibilità, che sia davanti a un singolo individuo o la mia eterna platea di cinquantamila persone per difendere quello in cui credete e fare della musica la vostra vita.
Per quel che riguarda me..
Ho smesso di suonare, e dopo un periodo lungo di lavoro in un’agenzia immobiliare sono entrato in una clinica per musicisti senz’arte ne parte.
Ce ne sono sempre di piu’ nel nostro paese, e raccolgono il meglio di quelli come me che vogliono solo dimenticare.
Sto bene nella clinica.
Mi fido di loro, sono sempre stato come un figlio li dentro.
Mi stanno insegnando a sparire completamente per dar spazio ad altro piu’ bello di me e di questo li ringrazio.
Sarò sempre io ma senz’anima, senza musica.
Loro sanno come fare e io non chiedo altro.
Di Stefano Daniele.