La fascinazione di Guy Ritchie per le scazzottate, i soldi, le prostitute e le leggi non scritte che derivano dalla malavita di strada riesce ad essere il punto di partenza perfino di una leggenda epica come quella di Re Artù. Dopo un prologo in stile kolossal che accenna agli antefatti bellici tra uomini e maghi e a partire dal ralenti dei titoli di testa, colmo di morti eccellenti che grideranno vendetta, il regista britannico attua una rivisitazione del mito di Excalibur forgiando un protagonista in continuità coi loschi personaggi dei suoi film criminali. L’erede al trono di Camelot, l’unico in grado di estrarre la spada – saperla controllare riguarderà l’anima del film – cresce in un bordello e impara a fare a pugni in una scuola di arti marziali. Charlie Hunnam, il Jax Teller di Sons Of Anarchy, presta il volto e il fisico scultoreo a un capobanda, un uomo col fiuto per gli affari circondato da un manipolo di outsiders. La capacità di saper trattare con le gang rivali gli consente addirittura di corrompere le guardie del Re. Lo scenario della sua vita fino ai venticinque anni, mostrata grazie un montaggio sintetico di pochi minuti che racconta la trasformazione di un piccolo orfano in un leader carismatico, è una Londra ante litteram (la Londinium romana) che possiede nel suo carattere multirazziale il principale riferimento alla contemporaneità. Se non fosse per l’ambientazione medievale, sembrerebbe l’universo narrativo di Lock and Stock, The Snatch, Rock’n Rolla e dei suoi altrettanto violenti e deliranti Sherlock Holmes.
King Arthur – Il potere della spada comincia da qui, da dialoghi serrati e brillanti capaci di raccontare un doppio punto di vista – la scena dell’interrogatorio – da movimenti di macchina frenetici e da un antieroe che assomiglia più un bullo di quartiere che a un sovrano buono e giusto.
Non è un caso, infatti, che la tappa del classico viaggio dell’eroe più approfondita sarà quella del rifiuto all’azione. Quando la genesi di Artù lascia il posto all’avventura vera e propria, Ritchie sceglie di indirizzare il percorso di consapevolezza del protagonista attraverso il topos della vendetta; in un primo momento quella legata agli amici più cari, infine quella riguardante la propria identità e le proprie radici. Tutto il resto, dallo zio supercattivo interpretato da un glaciale Jude Law fino ad arrivare alle scene d’azione e al duello finale, è un’opera avvincente e visivamente impeccabile, il primo passo di una saga di sei capitoli. L’autore inglese non si limita al cinema che sa fare meglio soltanto nella prima parte: Artù manterrà quasi inalterato il suo carattere da rinnegato fino alla fine e i cinefili saranno persino deliziati da almeno due citazioni tarantiniane. Al di là di eroi, magia e battaglie, questa è la storia di un regista rimasto fedele a se stesso.
Paolo Di Marcelli