L'Enrico Olivanti Quintet è formato da il chitarrista e compositore Enrico Olivanti, il pianista Carlo Ferro, il sassofonista Andrea Verlingeri, il batterista Marco Tardioli e il bassista e contrabbassista Giuseppe Salvaggio. Il loro è un jazz contaminato, tradizionale ma al tempo stesso innovativo. In occasione dell'uscita di "Il Pensiero Positivo", il nuovo disco del gruppo, abbiamo fatto quattro piacevoli chiacchiere con il chitarrista. Come diceva Jimi Hendrix «noi facciamo della musica libera, che picchi forte sull'anima in modo da aprirla». E questa frase descrive a pieno titolo lo stile di questo quintetto molto particolare.
«L'album è il frutto della maturazione del gruppo. Se il primo album era molto legato ad un suono riconducibile al jazz moderno, diciamo che questo nuovo lavoro risente di varie influenze e di atmosfere più complesse. La composizione e l'improvvisazione creano un interessante dialogo» dichiara ai nostri microfoni Enrico, parlando del disco «"Il Pensiero Positivo" è un concetto legato al bello della creazione, cioè l'esperienza di costruire qualcosa di artistico e non, partendo dal nulla. Il nulla può essere una pagina bianca priva di note oppure una pagina bianca su cui si può scrivere un romanzo. Tutto lo sforzo, la fatica e l'ingegno di scrivere qualcosa che abbia un senso e una sua importanza, lo reputo uno sforzo che va in contrasto con il nostro tempo. Questo disco è una semplice constatazione della bellezza del saper costruire qualcosa e saperlo fare sapendo che questa cosa si debba reggere, andando oltre il tempo. Siamo abituati a tutto ciò che abbia una vita ed una fine e questo mio Pensiero è un po' più legato all'idea di costruzione lenta, magari attenta agli errori, ai ripensamenti, ai dettagli, per poi avere qualcosa di contemplabile.»
«Volendo essere puristi, forse questo disco non è neanche un disco di jazz» spiega Enrico, parlando delle influenze musicali del gruppo «c'è stata una fase di riconoscimento nella tradizione europea, non tanto nello stile perchè nello stile non c'è nulla di classicheggiante, ma nell'approccio che trova un incontro nella concezione formale della musica europea. Lo reputo un disco europeo di musica contemporanea. E la contemporaneità è fatta di tutto quel bagaglio che ci viene dal passato, quindi anche dalla tradizione afroamericana.»
«Il mio percorso musicale è iniziato, come tutti i chitarristi, grazie a quattro ragazzi di Liverpool» sorride Enrico, parlando dei suoi idoli musicali personali «tirando giù le loro canzoni dallo stereo, imparai i primi accordi. L'aver iniziato con i Beatles mi ha aperto a molte sonorità: non sono un gruppo pop, non sono un gruppo rock, ma sono entrambi. Hanno dato la possibilità ad un ragazzo profano della musica di ascoltare dei timbri che poi un domani possono tornare a stuzzicarmi. "Eleanor Rigby" è una canzone che ad un ragazzo fa capire che cos'è un violino o una viola. "Michelle" apre invece un po' a suggestioni jazzistiche. Il secondo grande amore è stato Jimi Hendrix. Dopo ho scoperto che c'era un mondo nella musica afroamericana che portava verso l'improvvisazione, verso un'armonia più ricca rispetto a quella del rock/blues di Hendrix e lì ho avuto proprio una folgorazione. Durante il primo ascolto del disco "Kind of Blue" di Miles Davis ho avuto un brivido e da lì sono entrato in nuovo mondo. Bill Evans invece è il pianista che mi ha fatto innamorare dei colori armonici che vengono dalla musica classica.»
«Franco Cerri è un musicista straordinario» dichiara poi Enrico a proposito dell'illustre collega del genere «sentire un chitarrista italiano autodidatta che già all'epoca suonasse senza alcun complesso di inferiorità rispetto ai suoi colleghi americani, dà la statura a questo artista. è un personaggio che ha fatto tantissimo per l'educazione musicale.»
Baricco in "Novecento" ha scritto che «quando non sai cos'è, allora è jazz». Ma ora, dopo questa intervista, non ne siamo più tanto sicuri. L'Enrico Olivanti Quintet trascende i generi e porta il concetto stesso di musica al di là di qualsiasi definizione. Perché la musica è una delle poche cose in cui l'uomo è libero di sfogare la sua fantasia. E quindi non deve avere alcun tipo di confine.